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C’è un’altra chiesa che è tornata a suonare di recente le campane a morto dell’Opec, il principale cartello dei Paesi produttori di greggio. L’Agenzia internazionale per l’energia non poteva utilizzare termini più cristallini: l’Opec non è più il motore politico in grado di bilanciare il mercato del petrolio, un mercato sempre più intrappolato nella logica del cheap oil che mette a repentaglio produzione ed investimenti.

Nonostante l’entusiasmo sfoggiato dal neo-segretario Mohammad Barkindo (nella foto insieme al vicepresidente della Commissione europea Maros Sefcovic), durante il World Petroleum Congress di Istanbul, che non ha mancato di ribadire come proprio grazie all’accordo di Vienna sulla limitazione della produzione petrolifera, l’Opec sia tornata sullo scenario internazionale, reinventandosi e trovando una “nuova unità”, sono ormai tanti i tasselli che dimostrano il contrario. Il balzo dell’export delle produzioni petrolifere di due tradizionali membri Opec, che però hanno deciso di non rispettare i vincoli di Vienna, Libia e Nigeria, rendono sempre più impazienti e nervosi gli altri Stati che partecipano al cartello.

Quello libico è stato un vero e proprio schiaffo, a luglio l’output della compagnia libica Noc ha raggiunto la media di 1 milione di barili al giorno, una produzione a questo ritmo non si vedeva dal 2013. Tutto questo in presenza di infrastrutture energetiche ancora particolarmente azzoppate: i terminal di Sidra e Ras Lanuf, nella cosiddetta area della Mezzaluna petrolifera, devono ancora essere completamente riparati, mentre altri problemi riguardano l’integrità delle condutture, il ripristino delle stazioni di pompaggio e la riapertura dei campi chiusi durante il conflitto. L’obiettivo della Noc, dice il suo direttore operativo Mustafa Sanalla, è quello di produrre 1,25 milioni di barili al giorno entro la fine del 2018.

L’esenzione – formalmente concessa per consentire a entrambi i Paesi di riabilitare le infrastrutture petrolifere che erano state sabotate dai militanti islamisti negli ultimi anni – non è però piaciuta ad alcuni membri come l’Ecuador, che, per bocca del suo ministro dell’energia, ha fatto sapere di non volerne più sapere di tagli alla produzione. L’Ecuador è uno dei più piccoli paesi produttori di petrolio membri dell’Opec, ma la sua uscita dai ranghi, come ha scritto il Wall Street Journal, costituisce un duro colpo simbolico per il cartello. Anche un altro importante membro come l’Iraq reclama una produzione al pari delle proprie ingenti riserva.

Per il momento, dunque, solo i sauditi sembrano mantenere l’ortodossia produttiva raggiunta faticosamente con gli accordi viennesi. Riad ha annunciato che taglierà di oltre 600 mila barili al giorno le esportazioni petrolifere nel mese di agosto per compensare l’aumento del consumo interno durante l’estate. La Russia, altro principale contraente esterno degli accordi sulla produzione, sembra infatti intenzionata a non andare oltre opponendosi a ogni proposta di ulteriori tagli alla produzione. Come hanno fatto sapere alcuni esponenti del Cremlino, una parte del governo russo, si oppone sia a un aumento dei tagli che a un ulteriore prolungamento dell’accordo sul congelamento della produzione. Ufficialmente, però, il ministro dell’Energia russo, Aleksandr Novak, non si è ancora espresso sulla possibilità di confrontarsi con l’Opec su ulteriori riduzioni della produzione di greggio.

Chi sta azzoppando l'Opec

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