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La recente presa di posizione assunta dalla Chiesa sulla questione dell’immigrazione rappresenta certamente un passaggio importante nella maturazione di una mentalità moderna e consapevole.

Non da ultimo perché, diciamola tutta, di indiscrezioni se ne sono sentite troppe finora, con il difficile e quasi sempre strumentale modo in cui la politica nazionale interpreta le parole del Santo Padre, il quale per contro si rivolge al mondo intero con uno sguardo universale, non pensando per nulla di dare ricette o consigli pratici all’Italia.

Ecco così che i due interventi di ieri, sia quello del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e sia quello di monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, hanno precisato non solo il tema stesso ma anche la complessità che vi è nel trovare soluzioni responsabili.

Alcuni media hanno marcato però che, in realtà, si tratta di due visioni discordi sulla questione, non tanto facilmente assimilabili: Galantino ha definito, ad esempio, insufficiente la posizione espressa nella formula non tanto originale “aiutiamoli a casa loro” (contenuta peraltro nell’ultimo libro di Matteo Renzi), mentre Parolin è sembrato appoggiare una linea istituzionale, più affine a quella del governo che si sta muovendo invero bene nel trovare in nord Africa gli accordi necessari per evitare a monte le partenze.

A prescindere, in aggiunta, che anche se vi fossero delle differenti sensibilità oltre Tevere non vi sarebbe nulla di male, a ben vedere mi pare di rintracciare una certa convergenza di fondo nelle parole dei due prelati.

È essenziale distinguere due livelli di pensiero e di azione, per comprendere quale sia un buon orientamento etico da assumere su questa tragedia, divenuta tutta italiana per volontà dell’Europa.

Il primo è generale, e denuncia specificamente l’impossibilità morale, davanti alla concreta presenza di barconi pieni di persone presso le coste, a non procedere con i soccorsi e i salvataggi necessari. Ipotizzando che la Guardia Costiera o la Marina facessero annegare centinaia di migliaia di persone, possiamo immaginare facilmente che effetto dannoso tutto ciò avrebbe su un governo e sull’intero Paese. È evidente, quindi, che al di là dell’opportunismo politico, animato magari da un giusto voler inseguire il disagio dei cittadini italiani, i respingimenti ex abrupto non sono concepibili e possibili.

Il secondo livello, molto più articolato, sembra arrivare invece a contraddire il primo. Noi non possiamo farci carico da soli di tutte queste persone. Gli ultimi dati dicono di un Paese povero, il nostro, che osserva crescere ogni giorno l’indigenza assoluta e quella relativa degli italiani. Noi non abbiamo le risorse per poter inglobare, con o senza cittadinanza, masse intere di popoli nella nostra nazione.

Qui sorge la duplice impasse. L’Europa non avalla una politica comune dei soccorsi e dei ricollocamenti, e l’Italia da sola non può risolvere il problema della Libia e in genere quello che sta all’origine degli esodi di massa.

Bisogna perciò ammettere che in sé “aiutarli a casa loro” sia una verità perfino naif e lapalissiana, dato che occorre dire poi come, con quale percorso e in vista di quale risultato politico a breve, questo slogan possa diventare realtà concreta. Su questo tutti tacciono e si ritraggono.

Data la gravità è indispensabile, insomma, smettere di fare sortite estemporanee e poco intelligenti. Ad esempio sostenere lo ius soli, puntellare Triton e questa logica del “catino umanitario”, per poi uscirsene con il numero chiuso e con l’altisonante “aiutiamoli a casa loro”.

Via, almeno un po’ di serietà che non costa molto. Se si ritiene di mettere una limitazione alle entrate, non si cominci con dare l’immagine di un Paese che vuole allargare la cittadinanza, perché questo somiglia a quel tale che iniziava una cura dimagrante mangiando una carbonara.

Credo che i moniti della Santa Sede dicano unitariamente di un disagio della Chiesa verso l’Italia, dovuto alla poca coerenza di alcune posizioni politiche che vorrebbero essere positive ed equilibrate ma in realtà restano superficiali ed improvvisate.

Aiutare non significa accogliere. Accogliere non significa far diventare gli stranieri cittadini. Far diventare gli stranieri cittadini non significa privarli dello sfruttamento in cui si trovano ad essere, perché questa condizione la vivono in primis molti italiani. Essere umani davanti a persone che soffrono non può e non deve diventare l’autodistruzione di uno Stato già abbastanza malconcio, il quale deve, prima di tutto, ritrovare se stesso e migliorare le proprie condizioni strutturali alimentando crescita demografica ed economica interna, e un ruolo internazionale più prestigioso.

Aiutare a casa loro, in ultima istanza, o non significa niente, oppure richiede una politica estera forte, precisa e severa, sia verso gli altri Paesi europei, sia verso l’Africa, ma soprattutto verso se stessi. Tutto il resto irrita il Vaticano e non conta granché, non somigliando neanche minimamente ad un’idea vagamente umana e cristiana di solidarietà.

 

 

parolin, cina

Cosa dice il Vaticano sull'immigrazione

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