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Non è ancora detta l’ultima parola sulla sorte di Rex Tillerson, che molti ritengono in uscita dal Dipartimento di Stato.

Sebbene un numero sempre maggiore di analisti sia propenso a considerare il Segretario di Stato come “walking dead” e ad immaginare una sua possibile successione ai vertici di Foggy Bottom, l’ex capo della Exxon Mobile avrebbe ancora qualche carta da giocare per restare a bordo e recuperare una leadership giudicata catastrofica.

Come annotato da David Ignatius in un approfondimento da poco pubblicato sul Washington Post, vi è un’ancora di salvezza alla quale Tillerson potrebbe aggrapparsi per non affondare insieme ad una stagione di politica estera ritenuta dai più incolore e mesta.

Il Segretario di Stato ha in ogni caso davanti a sé una partita assai difficile da giocare: sempre più lontano dal presidente Trump, inviso a un gran numero di collaboratori al Dipartimento, offuscato dalla stampa e criticato per la presunta incapacità di abbandonare gli abiti da manager e vestire quelli di uomo politico, Tillerson dovrebbe riuscire a focalizzarsi sui punti di convergenza che ancora vi sono con la squadra di collaboratori più vicini a Trump, a partire da Jim Mattis, Segretario alla Difesa, con cui lo stesso Tillerson vanterebbe un rapporto più che positivo. Se, insomma, Mattis fosse disposto a spendersi per offrire una chance a Tillerson, difficilmente il presidente ignorerebbe tale posizione, per non correre il rischio di creare una frattura ai vertici dell’amministrazione.

Il Segretario di Stato, dal canto suo, dovrebbe lavorare per ridurre la distanza dalla visione di Donald Trump su tanti fascicoli di politica estera, dalla crisi nordcoreana alla stabilizzazione della Siria, passando per i rapporti con l’Arabia Saudita, il Libano e l’Iran.

Il rischio sinora corso è stato quello di un disallineamento insostenibile tra Dipartimento di Stato e Casa Bianca, sul quale pesano anche fattori personali, ambizioni e interessi che potrebbero condizionare la volontà della White House.

Sin dall’ingresso al Dipartimento di Stato, è emersa la grande distanza di vedute con Trump. Il confronto tra due personalità abituate a decidere in prima persona, sebbene in differenti contesti, è parso difficile da sostenere. L’estrazione tipicamente manageriale di Tillerson, uscito da una grande azienda in cui prendeva decisioni da numero uno, confrontandosi con ministri degli esteri e capi di stato, difficilmente si sarebbe bilanciato con il piglio decisionale e autocratico del presidente, businessman orientato a seguire esclusivamente la propria linea anche a costo di smentire i collaboratori più vicini. Gli attriti personali, appesantitisi a seguito della distanza su tante questioni internazionali, avrebbero ingigantito l’incomunicabilità tra Dipartimento di Stato e Casa Bianca.

Tillerson attraverserebbe un periodo di grande difficoltà anche con i suoi collaboratori al DoS. L’eccessiva attenzione agli aspetti gestionali sarebbe valutata assai negativamente dai diplomatici di carriera, più inclini a occuparsi di questioni sostanziali e meno di organizzazione o burocrazia.
A tutto ciò si somma la difficoltà ad avere una linearità di rapporti con la stampa, che ha spesso rimarcato i dietrofront e le differenti vedute con Trump. Basti anche solo richiamare la gestione della crisi nordcoreana e il dossier dei rapporti con la Cina.

Se il Segretario di Stato riuscisse a meglio allineare le proprie decisioni con il punto di vista presidenziale e a fare squadra con lo staff più vicino a Trump, vi sarebbe una speranza di permanenza a Foggy Bottom.
Questo significherebbe, come rimarcato dalla fine analisi di Ignatius, un ritorno sui propri passi e il riassetto della strategia sinora seguita da Segretario di Stato. Il tutto si tradurrebbe, indirettamente, in una possibile perdita di autorevolezza nei confronti di collaboratori e colleghi.

Tillerson – volendo – potrebbe giocare la carta della mediazione, puntando al compromesso. Prima ancora che la decisone di Trump, sulla sua sorte peserà la sua stessa volontà.

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