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L’ultima frontiera della globalizzazione è la ricerca della dimensione antropologica dell’individuo. Fino ad oggi il business è stato e – ancora per qualche tempo – continuerà ad essere fortemente caratterizzato dalla libera circolazione delle merci, dalla standardizzazione dei prodotti, dall’omologazione dei pensieri e dei comportamenti. Le migliori interpreti di questo trend sono le multinazionali che prosperano su economie di scala, culturalmente orientate verso il c.d. “pensiero unico”. Combattono le identità e i localismi e sono governate da un sistema finanziario che ha armonizzato prodotti e servizi.

Il profilo culturale dell’individuo è stato ricondizionato per impacchettare e vendere uno stesso prodotto, ovunque, pena l’esclusione dalla comunità. Un esempio meno evidente dei jeans della Levis si trova nel mondo della finanza. Negli ultimi 20 anni comprare un bond, un’azione o un derivato o contrarre un finanziamento è stato possibile solo tramite schemi contrattuali standard, entro i quali le maglie per intervenire realmente sono state progressivamente ridotte fino a scomparire. Ciò ha reso l’apporto individuale irrilevante, rendendo i white collars una vera e propria “commodity”. L’inesorabile processo di “commoditization” ha cosi raggiunto i piani alti della catena del valore. Non più e non solo la classe operaia o il commercio elettronico ma i top floor quello in cui i processi di accumulazione della ricchezza sono legati ai servizi a dimensione intellettuale e matrice finanziaria.

Finora la globalizzazione è stata la tempesta perfetta per le multinazionali, ma cosi com’è oggi interpretata sta mostrando pesanti crepe, suscitando reazioni, conflitti sociali e alimentando populismi.

Il paradosso è rappresentato proprio dall’innovazione tecnologica che dovrebbe in teoria accelerare i processi di globalizzazione ed invece li sta inesorabilmente annientando. Un esempio su tutti. Le nuove tecnologie rendono i prodotti e i servizi obsoleti prima ancora che siano stati commercializzabili in tutto il mondo, impedendo all’impresa globale di raggiungere i rendimenti attesi. Oggi sarebbe impensabile una scalata alla McDonald o la rapida accumulazione di ricchezza di Warren Buffet. Assistiamo invece alle parabole ascesa-discesa di Snapchat e alle “customers wars” modello Spotify-Deezer.

Per oltre vent’anni abbiamo letto gli stessi nomi nelle classifiche di Forbes mentre i futuri ricchi, piú o meno ricchi e meno noti, saranno i millennials. Milennials senza volto che cambieranno con rapidità impressionante. E ancora. Sono le nuove tecnologia che stanno sconfiggendo quel modo di vivere e di pensare connesso su scala mondiale, linfa vitale per il commercio internazionale.

E’ quindi il continuo mutamento dei mercati insito nella disruptive innovation il maggior nemico della globalizzazione? E gli Stati Uniti? Il profilo culturale multietnico e interreligioso consente a quel Paese di intercettare le tendenze in anticipo. E oggi cominciano a muoversi all’interno di aree ancora inesplorate. Le ultime ricerche si orientano verso i c.d. “territori interiori” dell’identità umana. Il “territorio interiore” è la dimensione antropologica, il DNA basale, la storia esperienziale, il contesto ambientale, la formazione culturale, la dimensione interiore del proprio io. Ma cos’è e come si muove il concetto di “territorio interiore” e soprattutto a cosa serve e come si applica ai fenomeni macro economici. Qualche tempo fa è uscito “inside-out” un film di animazione della Pixar che ha avuto un successo enorme. Il film mostrava le emozioni e la loro influenza su mente e comportamenti. Ecco il territorio interiore funziona esattamente cosi. Rintracciare il profilo culturale, i driver educativi per comprendere quale sia il benessere quotidiano e le aspettative di vita di ciascun individuo per definire un proprio perimetro di desideri e bisogni.

Per questo le multinazionali studiano i territori anteriori. Si tratterà di una netta inversione di tendenza. L’uso delle tecnologie comporterà un riorientamento della produzione e dei servizi verso i bisogni più locali e personali che esaltino le emozioni individuali, i retroterra culturali, i territori di provenienza. In questo sarà decisivo l’uso dei big data. Insomma sarà la scoperta dei nostri “territori interiori” a guidare la riglobalizzazione del commercio internazionale.

commercio, RENATO GIALLOMBARDO, ITALIA, PIL, EUROPA

Vi racconto la prossima riglobalizzazione del commercio internazionale

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