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Alla fine, la sveglia è suonata per l’Europa. Dopo ottant’anni di presenza militare sul continente, gli Stati Uniti hanno deciso di avviare un disimpegno strategico che potrebbe lasciare l’Unione europea priva di un credibile deterrente — convenzionale e non — nei confronti della Russia. Se negli ultimi trent’anni — vale a dire dalla fine della Guerra fredda — la questione delle spese militari è — lecitamente — rientrata nella categoria dei temi politicamente dibattibili, oggi questo tema esula dalle diverse sensibilità e assurge a precondizione sistemica per la sicurezza nazionale e internazionale. A maggior ragione se l’Europa intende continuare a sostenere l’Ucraina senza gli aiuti Usa. Lo ha sottolineato, seppur con modalità controverse, anche Donald Trump quando, durante il colloquio con Volodymyr Zelensky, ha usato la metafora delle carte. Una credibile capacità di deterrenza è necessaria per avere peso sui tavoli diplomatici. Senza di essa, è difficile che un interlocutore come la Russia prenda seriamente in considerazione la via della discussione pacifica. D’altronde, è con gli Stati Uniti che la Russia si è seduta al tavolo in Arabia Saudita, non con l’Europa.

L’Europa è quindi chiamata, come dichiarato da Ursula von der Leyen, a “riarmarsi”, e a farlo in fretta. È proprio il fattore temporale — invero assai ristretto — a non lasciare spazio per ulteriori dibattiti. Una Difesa comune europea, indubbiamente auspicabile, non potrà essere raggiunta in tempi brevi. I motivi sono chiari: la Difesa europea non è un tema tecnico ma politico. Non esiste Difesa comune senza cessione di una larga parte di sovranità nazionale e per questo bisognerebbe revisionare integralmente i Trattati istitutivi dell’Unione europea, un processo che, nella migliore delle ipotesi, prenderebbe degli anni. Dunque, almeno per l’immediato, l’unica strada è quella di procedere con i processi di riarmo nazionali, almeno sul piano prettamente militare.

Le motivazioni che hanno portato alla recente accelerazione della Commissione europea sulla Difesa sono chiare. Meno definiti sono gli obiettivi e, soprattutto, le modalità con cui finanziare questo riarmo. Benché l’attuale instabilità geopolitica sia già riuscita a far cadere molti dei tabù del passato — uno su tutti, il rigorismo tedesco sul debito —, la minaccia comune ancora non basta a smuovere quei Paesi, cosiddetti frugali, che si oppongono a ogni forma di finanziamento comune. Il riarmo europeo, così come delineato nel Piano ReArm Europe, dovrà pertanto essere condotto principalmente dagli Stati nazionali a proprie spese, tramite l’attivazione delle clausole di salvaguardia previste dal nuovo Patto di stabilità. Tali clausole permetteranno di scorporare le spese per la difesa dal computo sul rapporto deficit/Pil, evitando ai Paesi eccedenti di incorrere in una procedura di infrazione. Se però questa soluzione può permettere a Stati con poco debito pubblico – come la Germania – di mobilitare vasti capitali in tempi relativamente brevi, lo stesso non si può dire per quei Paesi che, anche in assenza dei limiti imposti dal Patto di stabilità, presentano alti livelli di debito pubblico. L’Italia rientra in quest’ultima categoria. Anche con il placet di Bruxelles, l’aumento della spesa militare, ad esempio al 3% del Pil, rischia di risultare insostenibile per un Paese che, già in tempi di pace, fatica a tenere in ordine i conti pubblici. Dunque, se i finanziamenti non possono essere garantiti né dall’emissione di debito comune europeo né dal ricorso a ulteriori prestiti nazionali, l’unica opzione che rimane è quella di ricavare i fondi necessari andando a tagliare altre voci del bilancio dello Stato, come sanità e istruzione. 

Questo scenario è stato categoricamente negato dal ministro dell’Economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti, che lo ha definito, non senza ragione, “inaccettabile”. Per evitare questa eventualità, il titolare del Mef ha proposto all’Ecofin una via alternativa: un sistema di garanzie europee dal valore di 16 miliardi di euro per attrarre investimenti dai capitali privati. Secondo Giorgetti, tali garanzie permetterebbero di mobilitare oltre 200 miliardi senza obbligare gli Stati a tagliare la spesa pubblica. Il sistema trae ispirazione dal Piano InvestEu che, tramite un analogo sistema di garanzie pubbliche fornite dal Bilancio Ue e dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), ha ridotto il rischio per gli investitori privati, incoraggiandoli a puntare su settori come digitalizzazione, innovazione e ricerca. Questi temi sono ovviamente centrali sul piano della difesa, ma più nell’ottica di costruzione di capacità future che di riarmo in senso stretto. Gli investimenti più pressanti al momento riguardano equipaggiamenti, munizioni e mezzi, tutto ciò che può contribuire a innalzare rapidamente i livelli di deterrenza convenzionale delle Forze armate europee. Non è ancora chiaro in che modo gli investitori privati possano trarre vantaggi da un settore in cui la domanda è quasi interamente statale e le dinamiche di mercato rispondono più a scelte politiche che a logiche di profitto. Se è vero che l’innovazione tecnologica nel settore della difesa potrebbe aprire nuove opportunità di sviluppo – dalla cybersicurezza ai sistemi autonomi avanzati – resta da capire quale sarebbe il reale incentivo per i capitali privati a investire in un comparto in cui i margini di guadagno sono strettamente legati agli acquisti pubblici. Inoltre, a differenza di settori come l’energia o la digitalizzazione, dove il coinvolgimento privato è sostenuto da una domanda di mercato più ampia e diversificata, il mercato degli armamenti è rigidamente regolato e soggetto a vincoli normativi e strategici che potrebbero limitare la libertà d’azione degli investitori. 

Finanziare il riarmo europeo coinvolgendo i privati. È davvero possibile?

L’Europa accelera sul riarmo, ma tra i Paesi più esposti sul fronte del debito — tra cui l’Italia — cresce il timore dei tagli alla spesa pubblica per finanziare la Difesa. Definendo tale scenario inaccettabile, il ministro dell’Economia Giorgetti ha proposto un fondo di garanzia europeo da 16 miliardi per attrarre gli investitori privati. Secondo il Mef, questo potrebbe mobilitare fino a 200 miliardi senza intaccare i servizi pubblici. Restano tuttavia da chiarire alcuni punti, soprattutto riguardo l’attrattività per gli investitori privati

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