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La visione strategica che accomuna Arabia Saudita e Israele si basa su un non-segreto: il contrasto all’Iran, perché la Repubblica islamica sciita è un nemico esistenziale dello Stato ebraico tanto quanto del Regno sunnita, ed è in concorrenza con entrambi per l’influenza regionale. I contatti si sono fatti pubblici con incontri informali, sponsorizzati da certi pensatoi di politiche strategiche (per esempio, uno nel 2015 nel washingtonian Council on Foreing Relations, diretto già ai tempi da Richard Haass, ora diventato più critico, ma nelle fasi calde delle presidenziali il più apprezzato pensatore di politica estera del presidente Donald Trump, che infatti è allineato più che mai con gli storici alleati mediorientali, a cui dà credito e fiducia). La via discreta è necessaria, anche perché Riad e Gerusalemme formalmente hanno relazioni diplomatiche congelate, ma le notizie di questi giorni sono diverse.

L’INNESCO DELLA CRISI ATTUALE

E’ in corso l’attivismo con cui i sauditi, guidati dal nuovo king-in-action Mohammed bin Salman, hanno portato in queste ultime settimane il confronto con l’Iran a un livello delicato: le dimissioni del premier libanese, che sembrano essere state imposte da Riad per trovare un altro importante tassello a cui agganciare la politica anti-iraniana, sono un elemento centrale. Gli israeliani sanno che prima o poi gli Hezbollah – i vassalli dell’Iran in Libano e i combattenti fidati da esportare come modello in tutti gli stati mediorientali in cui esistente un pertugio per infilare la propria influenza – vorranno riavviare la guerra mai chiusa del 2006. E sanno che il confronto sarà direttamente con l’Iran; è per questo motivo che nel corso dei sette anni di guerra civile siriano non hanno perso occasione per colpire i convogli di armi che Teheran passava ai miliziani libanesi sfruttando il caos del conflitto.

IL RAFFORZAMENTO IRANIANO

Ora che la guerra siriana è finita, e pure le statehood dello Stato islamico sono state cancellate, l’Iran si ritrova in mano un grande capitale: l’essersi buttato al fianco del regime di Damasco e l’aver fornito uomini alle milizie sciite anti-IS (la distinzione è d’obbligo, perché si tratta di guerre diverse) dà come contropartita agli ayatollah una forza d’influenza politica in Siria come in Iraq con la quale male convivono sia Israele che l’Arabia Saudita, e che per loro sopravvivenza ritengono di dover contrastare. Però, lato Gerusalemme, un conto è diffondere i cablogrammi agli ambasciatori per dettare una linea di sostegno alle ultime mosse saudite contro Teheran, un conto è fare la guerra.

STRATEGIA E TATTICA

Il problema è nei tempi: la spinta che bin Salman sta dando al suo piano è dovuta anche a necessità interne – il consolidamento del suo potere – che però mal si conciliano con le dinamiche della politica estera. Insomma: Israele potrebbe avere una visione strategica simile a quella dell’Arabia Saudita contro l’Iran, ma manca il momento, ossia l’aspetto tattico. Gerusalemme, in definitiva, non si farà dettare i tempi di una guerra contro Hezbollah e l’Iran da Riad (sebbene pubblicamente i funzionari israeliani parlino da tempo che lo scontro è imminente).

LA CONGIUNTURA DIETRO AI RISCHI

Però, scrive il New York Times c’è “ansietà” per il combinato disposto: un’impulsiva e aggressiva nuova leadership saudita; un’altrettanto impulsiva amministrazione americana che sta dando molto spazio a Riad (il consigliere e genero di Trump Jared Kushner era a Riad anche dieci giorni fa) e molto ascolto a Gerusalemme (anche per cancellare la pessima relazione che si era instaurata con l’amministrazione precedente); Israele che si approccia alla faccenda pensando al deficit di sicurezza nazionale che il rafforzamento di Hezbollah (e dell’Iran) può significare.

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