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Un amico, una persona di talento, un grande uomo che ama la Cina. La descrizione che Donald Trump ha fatto del presidente cinese Xi Jiping stride abbastanza con la reazione che ci si sarebbe aspettati dal leader degli Stati Uniti a stretto giro dalla morte, sotto sorveglianza, del premio Nobel per la Pace, Liu Xiaobo. Ma la cautela con cui il magnate e il presidente francese Emmanuel Macron hanno risposto alle domande dei giornalisti, lasciando il proprio cordoglio ad altri messaggi è anche il metro per capire come, a differenza che in passato, sia mancata una vera pressione internazionale per permettere almeno che il letterato potesse morire come da sua richiesta all’estero, assieme alla moglie, Liu Xia, che così sarebbe stata libera dopo gli anni ai domiciliari, cui era stata costretta subito dopo l’arresto del marito nel 2010.

Dal 7 luglio il premio Nobel era ricoverato nell’ospedale universitario di Shengyang, nella provincia del Liaoning, per un cancro al fegato allo stadio terminale. Fino all’ultimo le autorità cinesi si sono opposte al suo trasferimento all’estero, acconsentendo soltanto a che due specialisti stranieri, un tedesco e uno statunitense, potessero visitarlo e seguirlo. Liu stava scontando una condanna a 11 anni di carcere per sovversione dello Stato perché primo firmatario della Charta 08, il documento che, riecheggiando quello dei dissidenti e degli intellettuali cecoslovacchi del 1977, chiedeva una riforma in senso liberaldemocratico del sistema cinese.

La petizione apparve online nel 2008. La data scelta fu il 10 dicembre, giornata internazionale per i diritti umani. Di fatto l’accusa nei suoi confronti fu di aver messo in discussione la legittimità del potere del Partito comunista. Attivista di lunga data, fu in prima fila nel corso delle manifestazioni di Piazza Tiananmen. Il suo pensiero è senza dubbio ricollegabile alle aspirazioni della Cina degli anni Ottanta, poi sedate dall’intervento dell’esercito nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989. A queste aspirazioni vanno anche ricondotte alcune delle posizioni che oggi vengono imputate da sinistra a Liu, come il sostegno alle guerre in Irak e in Afghanistan o la spinta verso la privatizzazione delle grandi imprese di Stato o dei terreni, che non dispiacerebbero neppure a settori del Pcc.

In passato le ragioni di salute erano state la leva per permettere di mandare in esilio dissidenti e oppositori. Fu così per Wei Jingsheng, l’uomo che osò chiedere a Deng la quinta modernizzazione, ossia la “democrazia” e fu così per Chen Guangcheng, avvocato e attivista per i diritti delle donne che trovò rifugio, dopo una roccambolesca fuga, nell’ambasciata statunitense a Pechino. L’esilio fu concesso anche al fisico Fang Lizhi, le cui lezioni sono considerate uno dei momenti ispiratori del movimento del 1989. In tutti questi casi la libertà fu possibile anche grazie alla mediazione di Washington.

Proprio la pressione internazionale è ciò che in questi giorni è mancata. Quando Liu era già ricoverato Xi Jinping, arrivando ad Amburgo per il vertice del G20, proponeva la Cina assieme alla Germania come nuovi pilastri di un sistema economico votato al libero scambio, contro ogni tentazione protezionistica. Negli stessi giorni la premier norvegese Erna Solberg sfuggiva alle domande dei giornalisti sul caso Liu. Nel 2010 infatti l’assegnazione del Nobel da parte dell’accademia di Oslo costò caro alle esportazioni del regno verso la Repubblica popolare: fu la guerra commerciale del salmone.

Il quotidiano Global Times ha scritto che l’Occidente ha dato a Liu “un’aureola sulla quale non potrà più contare”. Altri media di Stato, nel riportare la notizia, hanno enfatizzato la condanna per sovversione, glissando sull’assegnazione del Nobel. Anche nelle versioni in inglese, quindi destinate a un pubblico internazionale, che si presume siano a conoscenza del riconoscimento che gli fu conferito nel 2010 e che non poté mai ritirare (all’epoca fu simbolica la sedia vuota). Lo stesso non si può dire per il cinese medio. La cappa della censura è calata sul letterato e anche tra le élite, come emerso da un recente pezzo di Foreign Policy, è diffusa la sensazione che in parte l’intellettuale, sfidando il potere, se la sia cercata.

Il ministero degli Esteri ha a sua volta respinto le critiche, sostenendo che Liu ha ricevuto tutte le migliori cure. Fin dal giorno del ricovero, la degenza è diventata una sorta di guerra di propaganda, nella quale non sono mancate anche gaffe: un video mostra Liu mentre viene sottoposto a una Tac con gli occhiali ancora addosso. La stessa ambasciata tedesca non ha mancato di far sentire il proprio disappunto quando le autorità hanno diffuso un video dei medici stranieri che visitavano il paziente e si complimentavano con i colleghi cinesi. Un atteggiamento contrario alla tutela della privacy del malato.

Vi racconto i poco liberali imbarazzi occidentali su Liu Xiaobo

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