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Le elezioni altro non sono che l’appuntamento con gli elettori che vanno dunque mobilitati. Non mi riferisco solo a quelli storici, riannodando i fili di un racconto che ha radici lontane, ma anche a “tutti gli altri elettori”: quelli indifferenti, quelli astenuti, quelli che hanno votato altri partiti. Per questo il primo punto è avere un’organizzazione politica contemporanea e capillare in grado di coprire tutto il territorio. Cosa vuol dire mobilitare? Per la Treccani equivale a “impegnare a un alto rendimento, far cooperare attivamente a un determinato scopo, generalmente facendo passare da una situazione statica a una condizione dinamica”. Mobilitare significa nei fatti coinvolgere in prima persona in un progetto collettivo migliaia di singole individualità che proprio in questo coinvolgimento trovano un senso alla partecipazione politica nella vita della propria comunità. Perciò prima che razionalità e testa, è una questione di passione e di cuore. Non si tratta solo di convincere le persone a votare, ma di farle sentire parte integrante di una storia che si sta scrivendo insieme, come se fosse un passaggio di testimone, da una mano ad un’altra, per milioni di volte: il leader è quello che raccoglie il testimone nell’ultimissima frazione e chiude la corsa, ma solo se le mani (e le gambe) che l’hanno portato fino a lui sono state forti (e veloci), allora il leader è in grado di vincere le elezioni.

Speranza e fiducia sono i due elementi chiave, gli elementi imprescindibili su cui si vincono le campagne elettorali, senza i quali anche le vittorie scontate si trasformano in sconfitte drammatiche (ogni riferimento al 2013 non è per nulla casuale). Ma per suscitare speranza e fiducia, tocca avere il coraggio di lanciare sfide complicate che richiedono il sostegno e l’affetto di tutti. Bisogna lanciare l’assalto al cielo, spiegare come, quando e perché le condizioni degli elettori cambieranno, quali nuovi diritti, quali nuove garanzie, quali nuove conquiste del progresso saranno ottenute, quando le elezioni saranno vinte.

La campagna elettorale si vince con il coraggio che è l’esatto opposto della paura, la paura che immobilizza che frena che spegne gli entusiasmi anche dei militanti più accesi. E se si parte avendo paura di spaventare gli elettori, state pur certi che quegli stessi elettori sono già altrove. Lì dove le paure sono fomentate, invece che superate. Intanto domenica scorsa si è tenuto un referendum in Lombardia e Veneto. Che cosa possiamo dedurre dall’esito del voto. Lorenzo Pregliasco mi ha girato questo grafico pubblicato da YouTrend sul sito dell’Agi

Grafico youtrend

Un grafico ci dice molto della natura politica di questa consultazione, almeno per ciò che riguarda il Veneto. Emerge una correlazione molto significativa tra la partecipazione al voto (e quindi il favore verso la richiesta di autonomia, viste le percentuali di “Sì”) e le percentuali di voto al “No” in occasione del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre 2016. In altre parole, maggiore fu la percentuale di “No” alla riforma costituzionale, maggiore è stata questa volta l’affluenza.

Ora molte sono state le cose dette sul referendum, a) sul fatto che fossero almeno 20 anni che spinte autonomiste (soprattutto sulla gestione fiscale) covassero nella società veneta; b) che il voto abbia preso forza dalla protesta nei confronti di un governo centrale considerato troppo lontano a favore, invece, di un neocentralismo regionale; c) che molti elettori più che votare per un Veneto più autonomo siano andati a votare per ragioni che nulla avevano a che fare con il quesito del referendum: dal tema delle banche venete alla paura dei flussi migratori, alla ripresa economica che non è ancora percepita da tutti come reale portatrice di miglioramenti nella vita di ciascuno.

In un certo senso, quest’ultimo punto mi ha fatto leggere meglio il grafico di YouTrend. Come l’anno scorso il referendum è diventata l’occasione, data a tutti quelli che erano insoddisfatti dell’azione del governo, di dare un segnale forte e inequivocabile, così domenica ho l’impressione che dal Veneto e in parte dalla Lombardia sia arrivato lo stesso tipo di segnale, che determinerà in maniera drammatica l’agenda politica dei prossimi mesi e quindi della campagna elettorale.

Leggo cioè una fortissima contestazione dello status quo, legato anche alle preoccupazioni dovute alle sperequazioni causate dalla globalizzazione nelle democrazie occidentali. Mettiamola così, se il globale (mercato libero, confini aperti, ecc) mi fa sentire insicuro e vedo che le decisioni politiche si allontanano sempre di più da me (nuova governance europea e di altri organismi sovranazionali), è molto probabile che il nazionalismo, il regionalismo, il localismo (spesso tutti raccolti in forme diverse di populismo) siano le uniche a dare risposte, per quanto sbagliate e di corto respiro, alle paure, alle ansie, alla crisi della democrazia di rappresentanza e in ultima analisi al concetto di identità.

Per rompere questo circolo vizioso di paura che genera paura e di chiusura che genera altra chiusura, dobbiamo declinare tre parole fondamentali, che sono davvero il campo su cui si giocheranno in questo Paese le prossime elezioni: 1) protezione; 2) prossimità; 3) appartenenza. Protezione vuole dire non lasciare nessuno indietro, ma anche riformare lo Stato in modo che non sia visto semplicemente come un esattore di gabelle o un mostro incomprensibile di burocrazia, ma come un fornitore di servizi di qualità. Prossimità vuol dire ridurre le distanza tra centro e periferia, tra città e campagna, tra chi ce la fa e chi non riesce, non rincorrere le paure nuove e antiche che attraversano la contemporaneità, ma comprenderle per superarle. Appartenenza vuol dire ricucire e rammendare gli strappi (sociali, economici, culturali) delle nostre comunità, facendo sentire ognuno di nuovo partecipe e testimone di una storia più grande, una storia collettiva che ha bisogno del contributo di tutti per raggiungere il suo scopo.

Dipende solo da noi, trasformare i prossimi mesi nell’occasione per rendere migliore il nostro Paese, oppure arrenderci a una o più narrazioni tossiche, che avveleneranno il dibattito rendendo più debole la nostra democrazia. Che dite, ci proviamo?

Roberto Maroni e Luca Zaia

I segnali da cogliere dai referendum in Lombardia e Veneto

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