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Più occupazione con più immigrati, ma è fuga dei giovani. È la sintesi, veloce, di quello che detto il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta alla riunione annuale a Palazzo Koch. Ventilando una colpa generazionale per chi non ha fatto figli. È vero che c’è un deficit di prole ma è pure constatato che nelle stanze della scuola i giovani si perdono. Di recente un ragazzo che sta terminando i tre anni di università, economia e management, mi ha interpellato per chiedermi il corso, corporate e finance, da seguire nei prossimi due anni. La magistrale. Ha 22 anni. Prima di consigliarlo gli ho chiesto un po’ di notizie sulle sue aspirazioni. Sul lavoro che ha in testa. Gli piace leggere i grafici di borsa. Stare in quel circuito. Che voleva provare, dopo i tre anni, a lavorare ma poi ha cambiato idea. Probabilmente, è la mia deduzione, spinto dai genitori che vogliono, a tutti i costi, che arrivi alla magistrale. È empatico. Rivolgendogli qualche domanda, mi dice che sta lavorando in un ristorante vicino casa. Come aiuto cuoco ma che, ormai, essendo apprezzato, sta prendendo le mostrine di primo cuoco. Senza aver mai frequentato una scuola specifica. Solo andando a bottega. In cucina. Ha una predisposizione. Una dote naturale per quel mestiere. Che, ne sono certo, a lui piace più della borsa, dei grafici, dell’analisi finanziaria.

La scuola e la famiglia senza bussola

Questa testimonianza per arrivare dove. È storico che nella scuola ci sono zone d’ombra. Tanti giovani non sanno che fare. Oppure hanno in testa visioni approssimative, “un lavoro che mi farà viaggiare”. Vaghezza. La scuola secondaria non ha format che spingono gli individui a imparare un mestiere. Questo è lo scopo di tutti. Si preferisce dare spazio a diplomifici di laurea di completa inutilità. Distributrici di sogni di mezza estate. Basta vendere. Il comunicatore, il giornalista, il manager, le istituzioni internazionali. Che vedranno con il binocolo.

L’altro lato del cuscino è occupato dalla famiglia. E l’angoscia petulante di aver un figlio laureato. Per forza. La fissa del blasone del “dottore” davanti al nome. Non importa come si laurea. In quale disciplina. Basta che si laurei. Per far cosa viene dopo. Salvo sorprendersi, è la meraviglia degli sprovveduti, quando le sfavillanti carriere sognate non si realizzano e si scontrano con la realtà, un mercato del lavoro spezza ferro, che ti chiede la laurea anche per fare i lavori più umili perché tanto quel foglio di carta è di per se stesso svalutato, vuoi perché gira facilmente, vuoi anche perché si sostanzia in svilente grammatura.

Imparare un mestiere

Da qui la giustificazione iniziale. Devono entrare molti immigrati perché c’è bisogno di forza lavoro. Il default originale è che gli indigeni non imparano i mestieri. Scoperti. Non c’è educazione da parte della scuola e della famiglia. Opera di convincimento a gratificare la scelta del giovane verso mestieri che danno anche ritorno economico, dagli elettricisti agli idraulici, dai macellai ai camerieri, fresatori, tornitori, specializzati in lavori di precisione. Commercianti, i negozianti. Mi raccontava il proprietario di una merceria che i suoi figli nemmeno sanno il mestiere che fa il loro papà. Vietato forzare, ma educare è tramandare la tradizione. Appassionare i figli, lasciandoli poi liberi di fare quello che hanno in testa, ma almeno provarci.

I giovani italiani che formiamo in Italia poi se ne vanno all’estero? Anche qui sarebbe il caso di abbassare lievemente la prosopopea. Girando per diversi Paesi le cosiddette intelligenze esiliate all’estero non le ho incontrate. I giovani escono dall’Italia per fare le loro esperienze. È una loro necessità che farebbero comunque anche se l’Italia fosse il più bello dei mondi possibili. Come arrivano in Italia tanti giovani provenienti dall’estero. Ci sono settori, l’agricoltura, dove i giovani dopo essersi laureati, frequentato nazioni diverse, ritornano nei luoghi nativi, per proseguire l’attività dei genitori, innovando le produzioni, applicando i saperi bio-sostenibili appresi nel corso degli anni di studio.

Liberalizzare le professioni

Questo ci fotografa una realtà che valorizza il rapporto scuola-lavoro. E la conoscenza. Si tratta di sbloccare l’inceppo tra offerta formativa e i mestieri. Che sappiamo essere complesso per struttura. Non si parla più di togliere il valore legale del titolo di studio, d’ispirazione liberale, che in Italia rimane tabù. Luigi Einaudi diceva che il valore legale dei titoli di studio è veleno. Ci sarebbe una rivoluzione nelle professioni, nelle università, negli insegnamenti. Ma qui l’ultima liberalizzazione che si ricorda sono le lenzuolate di Bersani, nel 2006. Poi è morta gora. In un Paese dove ci si laurea facendo riferimento a un decreto regio e le corporazioni insieme ai fasci erano una Camera del Regno d’Italia, dal 1939 al 1943, è arduo pensare ai fuochi artificiali. La vicenda dei balneari insegna.

Quindi avanti all’ingresso regolare di immigrati per le nostre imprese ma non si dica che il problema tutto,  per altri settori, è dovuto solo al calo delle nascite. Molto proviene da una egemonia culturale incapace di aggiornarsi. Di progredire. di rendere dinamico il lavoro, i lavori, la passione, il pensiero, il movimento, le famiglie, le scuole e le istituzioni.

A condizioni date, per uscire dal circolo vizioso vale quell’adagio padano, di scuola zavattiniana, neorealismo spinto, voltarsi indietro per andare avanti quando il pane era polenta. La sfida moderna del lavoro, della manodopera, della scuola sta nel rinfrescare la tradizione. Solo così ne usciremo, chissà quando, ormai, visto l’andazzo, valorizzando le intelligenze, i saperi e le esclusive eccellenze che hanno segnato il dopoguerra, il boom degli anni Sessanta e poi il made in Italy, studiato e imitato in tutto il mondo.

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