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Con Alitalia ci risiamo per l’ennesima volta in vent’anni. Le magnifiche sorti e progressive promesse dall’avvio nel 2015 della “nuova Alitalia” sono state bruscamente capovolte. “Bruscamente” per modo di dire, perché nemmeno il 2015 era andato esattamente come si sperava, con 200 milioni di euro di perdite consolidate nette; tutto sommato non male, si era annunciato con soddisfazione; se non fosse che tanto risultato era stato ottenuto in virtù di entrate non ricorrenti dello stesso importo e di perdite per hedging (lecitamente) detratte dal goodwill e non dai ricavi; cosicché le perdite reali ammontavano a circa 600 milioni. E nemmeno a dire che si trattava di una start up, ereditando mercato e marchio della “fu”, ripulita come è stata dalle sue scorie e forte della scommessa e delle risorse di Etihad. Verrebbe quasi da dire che il 2016, con le annunciate perdite di 600 milioni, abbia segnato un consolidamento, se non fosse che, a forza di perdere, la cassa è collassata e con essa la (per dire) fiducia di azionisti e creditori.

Prima di passare oltre, mi sia consentito dire che i dipendenti hanno immense responsabilità per le passate disavventure della compagnia e dunque anche per lo stato in cui versa oggi; gettare però addosso a loro la croce del fallimento dell’ultimo disegno di farla di nuovo sedere fra i grandi dell’aviazione mondiale è veramente, questo sì, maramaldesco, quasi che il piano presentato fosse realisticamente più dell’ennesima boccata di ossigeno. Certo, i costi sono troppo elevati (basti guardare le perdite su hedging – 330 milioni nel 2015, non contabilizzate fra le perdite di esercizio per il motivo esposto prima –, ma la questione centrale è che sono i ricavi a non tirare perché, da quando ad Alitalia (e sono quasi vent’anni) è stato imposto un top management, competente sì ma non nel settore aereo, il refrain è stato di ritirarsi proprio dai mercati potenzialmente redditizi, quelli di lungo raggio, “appaltandoli” ad alleati che le hanno restituito briciole.

Qui siamo, ed è evidente che lo scenario che si prospetta è del tutto diverso da quelli ventilati dalle cure del passato. Ai commissari spetta ora il compito di individuare lo scenario meno drammatico. Il quale è, nell’ordine: vendere l’intera compagnia, venderne rami d’azienda a pezzi, liquidarne gli asset, con possibili combinazioni fra le varie opzioni. Il tutto, magari, previa costituzione di un’ulteriore bad company e rinuncia al rimborso del nuovo prestito ponte pubblico, pomposamente annunciato come a “condizioni di mercato”. Con l’ottimismo della volontà, seguito a sostenere che si debba tentare la prima tra le vie indicate e che si debba puntare veramente a rilanciare il lungo raggio: non solo nell’interesse di Alitalia, ma anche in quello del Paese che ha necessità di mantenere una compagnia con base in Italia, che eserciti collegamenti diretti di lungo raggio e non collegamenti che passano da hub di altri Paesi. Peraltro, l’Italia è, dopo la Grecia, l’ultimo Paese per collegamenti diretti di lungo raggio per abitante, e dunque la domanda potenziale può crescere più che altrove: il mercato c’è, si tratta di saperne cogliere le opportunità.

Da quanto mi è dato capire, Alitalia è in sostanziale pareggio sui collegamenti di breve raggio, dove è forte la concorrenza delle compagnie low cost ma dove ancora mantiene storici presidi. Il medio raggio è invece una voragine, anche qui a causa della concorrenza low cost a cui però si somma quella dei grandi carrier che fanno feederaggio dai tanti aeroporti italiani verso i propri hub. Sul lungo raggio, infine, Alitalia sembra avere qualche ritorno positivo, nonostante la scarsa attrattività di un’offerta poco diversificata per destinazioni e per numerosità delle frequenze, e nonostante i perversi effetti delle sue alleanze.

Se il quadro descritto è (anche all’incirca) corretto, il partner/acquirente da ricercare dovrebbe essere uno forte, ben attrezzato finanziariamente e nella gestione, interessato a sviluppare il lungo raggio dall’Italia integrando la propria rete con Alitalia, e dunque senza competere con essa. Sgombriamo quindi il terreno da Lufthansa (soluzione salvifica spesso richiamata oggi), che avrebbe solo interesse a trasferire altro traffico verso i propri hub, e con essa scartiamo gli altri grandi carrier internazionali – inclusi Qatar, Emirates, ecc., che (come Etihad) le sottrarrebbero il traffico verso est. Per esclusione, pare a me che le cose potrebbero essere diverse con una compagnia come Ryanair, con ambizioni smisurate ma differenti, che ha già dichiarato un qualche interesse, che è alla ricerca di nuovi mercati oltre il tradizionale point-to-point, ma che non è direttamente interessata a mettersi in proprio sul lungo raggio. Se questa via fosse perseguibile, lo scambio potrebbe prevedere di assegnare a Ryanair il feederaggio, soprattutto, sul medio raggio, il che permetterebbe ad Alitalia di uscire da un mercato che è quasi solo zavorra e, con il ricavato della vendita di aerei e slot, investire sul lungo raggio, anche da città italiane dalle quali è maggiore l’esodo verso altri hub europei. Non un accordo commerciale da cui Ryanair potrebbe sganciarsi una volta subentrato sul medio raggio, ma la sua entrata come azionista di riferimento; eventualmente anche co-azionista dello Stato italiano, del cui reingresso non mi scandalizzerei se fosse in un’ottica (per una volta) industriale e di lungo periodo. Certo, fra i vari ostacoli da superare vi è che uscire da Skyteam costerebbe una penale gigantesca, ma che potrebbe utilmente entrare all’interno di una trattativa tra Stati. Chiamata per il governo: batta un colpo, non è più tempo di “pezze e pezzuole”.

(Articolo pubblicato sul numero di maggio della rivista Airpress)

ryanair, alitalia

Cosa può fare Ryanair in Alitalia

Di Mario Sebastiani

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