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Lunedì all’Onu c’è stata la riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza collegata al nuovo test atomico della Corea del Nord. C’è già un mozione pronta, proposta dagli Stati Uniti (che gode del sostegno dei Paesi europei) e si voterà lunedì prossimo. L’idea americana edulcora una dichiarazione di domenica, via Twitter, del presidente: richiede che le Nazioni Unite, tra le altre cose, avallino un meccanismo in grado di colpire con le sanzioni anche i Paesi che fanno affari con il Nord – come ha già fatto il Tesoro americano in via unilaterale con alcune banche, aziende e soggetti privati, russi e cinesi –, mentre il presidente statunitense aveva parlato proprio di interrompere le relazioni commerciali degli Stati Uniti con quei paesi.

“Gli Stati Uniti stanno considerando, come misura aggiuntiva alle altre opzioni, di fermare tutti gli scambi commerciali con qualsiasi paese faccia affari con la Corea del Nord”, ha twittato domenica il presidente americano Donald Trump qualche ora dopo che Pyongyang aveva confermato di aver compiuto il suo sesto test atomico.

Si tratta di una dichiarazione molto severa, con la quale Trump ha minacciato diverse nazioni che si muovono tra (o sopra) le sanzioni Onu che impediscono di chiudere intese commerciali col Nord, ma che è di fatto impraticabile per l’economia americana a meno di conseguenze catastrofiche. Un’affermazione “nonstarter” come la chiamano gli esperti, ossia senza possibilità.

La Cina è il principale degli attori in campo: compra l’83% dei beni esportati dalla Corea del Nord, ne vende a Pyongyang l’85 (forse anche il 90, comprese operazioni in violazione occulta delle sanzioni); ma la Cina è anche il principale partner commerciale americano, con un export pari a 462 miliardi di dollari (dato 2016) e un’importazione di Made in USA da 115 – è il famoso sbilanciamento commerciale da 347 miliardi che Trump vuole riequilibrare, con le buone o con le cattive, con Pechino. Poi c’è l’India, con un 3,5 per cento di export e un 3,1 di import dalla Corea del Nord; gli indiani hanno una bilancia in cui pesano 21 miliardi di importazioni dall’America e 46 e rotti di esportazioni (un altro sbilanciamento a svantaggio americano, ed ecco che il dossier nordcoreano diventa anche un richiamo alla trade-war).

Secondo uno studio della Korea’s Trade Investment Promotion Agency, ci sono dozzine di Paesi che attualmente hanno rapporti commerciali, seppur minimi, con la Corea del Nord – e i dati migliorano per Pyongyang di un 5 per cento medio l’anno dal 2010. Si tratta di relazioni che trovano la via per aggirare le sanzioni oppure operazioni libere: Pyongyang esporta soprattutto carbone, ma anche zinco e altri minerali, o manufatti tessili e cibo (pesce). Tra i Paesi che sono in affari, seppur per cifre piccole, col Nord ci sono la Russia, che è un avversario strategico americano (sebbene Mosca e Washington abbiano in piedi comunque un volume di scambi, ridotto dopo le sanzioni del 2014), ma anche alleati statunitensi come la Francia, la Germania, il Messico, l’Arabia Saudita, il Pakistan, le Filippine (che nel 2016 hanno avuto un salto del 171 per cento nel valore dei commerci) e pure l’Italia, che stando ai dati del 2015 ha importato dalla Corea del Nord beni per 1,64 milioni di dollari (che nel 2000 cercò di aprire più ampie relazioni con l’ex ministro degli Esteri Lamberto Dini: Matteo Salvini, il leader della Lega, dopo un viaggio del 2014 lo definì “un’opportunità gigantesca per i nostri imprenditori”).

In un esempio: tagliare i rapporti con il più importante partner commerciale nordcoreano, la Cina, che è anche il principale partner commerciale americano, potrebbe costare almeno un milioni di posti di lavoro americani – oltre al contraccolpo sui prodotti, per dire, gli iPhone.

Trump può davvero tagliare i rapporti con chi commercia con la Corea del Nord?

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