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L’attacco con una gragnuola di missili contro una base aerea siriana è stato ordinato da Donald Trump mentre si serviva l’aperitivo della cena ufficiale offerta al presidente cinese Xi Jinping in visita di Stato. Con questa decisione ha bruciato mediaticamente i colloqui con il suo ospite, perché tutta l’attenzione si è spostata sulla vicenda militare. Uno sgarbo che pagherà caro nei confronti della Cina, ma che è servito a galvanizzare lo stuolo di giornali americani ed europei, insieme agli analisti mainstream che finalmente lo hanno visto nell’angolo: costretto ad usare le armi, a mettersi contro la Russia, a rinunciare a un confronto commerciale duro con la Cina, cui deve invece chiedere l’assenso in vista di una escalation militare contro la Corea del Nord.

Trump si sarebbe arreso al Deep State, questo è il commento più diffuso che gira. “The Boss”, quello che decide di testa sua e che ha ragione anche quando ha torto, è diventato “The Apprentice”, quello che deve imparare ancora tutto e che rischia di essere licenziato al primo errore.

La reazione missilistica in Siria è la conseguenza della catastrofe geopolitica ereditata da Barack Obama, che si aggiunge alla infinita debolezza americana sul piano economico e finanziario, che va avanti dal 1971, costellata da crisi ricorrenti. Ma neppure questa iniziativa militare sembra in grado di restituire agli Usa quel ruolo unipolare che ha perso negli altri campi.

In molti avevano condannato la marcia indietro di Barack Obama, tre anni fa, quando rinunciò a intervenire militarmente contro il regime di Assad che era stato accusato di avere usato armi chimiche contro la popolazione civile inerme, per sedare una rivolta di piazza.

Da allora, la strategia americana di sostegno alle Primavere arabe, che avrebbe dovuto restituire le libertà civili e democratiche alle tante popolazioni del Medio oriente soggette a regimi dittatoriali, si è impantanata. L’Isis prese il sopravvento, seminando ancora più morte e terrore, anche con attentati in Europa. Donald Trump, che aveva impersonato il personaggio del boss nel famosissimo format televisivo The Apprentice, aveva promesso che avrebbe fatto l’America Great Again. Ha già garantito stanziamenti ulteriori alle forze armate, definanziando tante altre iniziative, dalla tutela dell’ambiente al sostegno dei Paesi poveri.

Alla prima occasione, non importa se sia vero o meno che siano state le truppe di Assad in Siria ad utilizzare le armi chimiche, Donald Trump ha chiesto all’Onu una risposta decisa. Di fronte alla mancata condanna per via del veto russo, ha agito da solo, ordinando ad una nave americana di lanciare ben 59 missili su una base aerea siriana. Una mossa a sorpresa, ma preparata da tempo. Trump ha ridato finalmente un ruolo agli Usa in Siria, è rientrato in gioco in uno scacchiere da cui erano assenti, addirittura estromessi dalla strategia espansionistica russa: ha colmato il vuoto politico in cui si era cacciata l’amministrazione Obama.

Il quadro della guerra in Siria vede incrociarsi due strategie: quella dei sunniti contro gli sciiti, che riguarda anche l’Irak, e quella della Russia che cerca di ritornare ad essere una potenza globale e non solo regionale, con una nuova presenza nel Mediterraneo. Anche in Libia, infatti, Mosca sta sostenendo il governo di Tobruk che è in conflitto con quello insediato con il sostegno dell’Onu e degli Usa a Tripoli.

La presenza russa nel Mediterraneo inquieta non solo gli Usa, ma anche la Francia e la Gran Bretagna. Basta ricordare gli sforzi di anni, sin dai tempi in cui il generale egiziano Nasser governava, che servirono agli Usa per scalzare la Russia dal Mediterraneo, fino a rimanere inermi di fronte alla guerra del Kippur, che portò alla prima crisi petrolifera nel 1973. Colsero due piccioni con una fava: misero l’Europa in grave difficoltà, svuotarono i caveau delle loro banche centrali, che traboccavano di dollari, e rimarginarono l’orgoglio degli Arabi che era stato ferito in modo non rimarginabile per via della sconfitta subita nella guerra lampo del 1967.

Anche stavolta, lo stallo geopolitico è completo, perché si saldano quello in Medio Oriente con quello nel conflitto ucraino. Secondo Henry Kissinger, la partita si poteva chiudere con uno scambio: gli Usa cedono sulla questione della annessione della Crimea da parte di Mosca, ma la Russia si deve ritirare dal Mediterraneo, tornando una potenza solo regionale. La partita innescata dalla iniziativa miliare americana si fa complessa.

Primo problema, i rapporti con la Turchia, che ha l’aspirazione di avere una leadership nell’area, prendendo il posto dell’Egitto. L’avvicinamento a Mosca, temporaneo, era dovuto all’utilizzo da parte americana della minoranza curda in Irak per combattere le forze dell’Isis. La stessa minoranza si trova anche nel nord della Siria ma soprattutto nel sud-est della Turchia stessa: una volta armata ed ammessa ad una ampia autonomia amministrativa in Irak, usata per combattere il regime siriano di Assad, è probabilissimo che ambisca a costituire una entità unica di tipo statuale, mettendo insieme i territori dei tre Stati in cui abita. La Russia, invece, ha sempre contrastato con estrema durezza le ambizioni separatiste, come è accaduto in Cecenia. In più, il Presidente turco Erdogan ha sempre sospettato che l’amministrazione Obama avesse offerto asilo al suo più vigoroso oppositore politico Fethullah Gülen per osteggiarlo segretamente. Anzi, non ha mai fatto mistero di ritenerlo il vero mandante del fallito colpo di Stato della scorsa estate.

Con il cambio di amministrazione negli Usa, e soprattutto con la reazione militare decisa da Donad Trump, anche Ankara può chiedere di vedere le carte: capire se anche il nuovo presidente americano è disposto a giocarsi il rapporto pluridecennale di alleanza con la Turchia con un riavvicinamento alla Russia, solo per utilizzare strumentalmente le minoranze curde nella guerra contro l’Isis in Irak e contro Assad in Siria. In conclusione: Erdogan mette sul tavolo degli Usa il suo progetto di repubblica presidenziale, di Turchia che torna ad avere dopo un secolo l’Islam come religione di Stato, che non vuole la creazione in prospettiva di una nazione Curda. Il disastro geopolitico compiuto da Hillary Clinton, che ideò le Primavere arabe, è difficile da rimediare.

La questione russa rappresenta il secondo aspetto della vicenda siriana: gli Usa erano stati estromessi dai colloqui di pace tra le parti, tenuti ad Astana, con la presenza dei Tturchi. Se ora sono rientrati in campo, non possono pensare di chiedere alla Russia un passo indietro, sic et simpliciter. Devono trattare di tutte le questioni in ballo, con un delicato equilibrio di dare ed avere.

Le mosse in avanti della Russia nel Mediterraneo, come i rinnovati rapporti con l’Egitto di Al Sisi, sono stati pagati poco o niente, ma sono altrettante pedine che ha messo sulla scacchiera. L’appoggio americano alla presidenza Morsi, sostenuto dai Fratelli islamici, un partito religioso messo al bando sin dai tempi di Nasser, ha portato l’Egitto ad una stagione di conflitti sanguinosi e alla presa del potere da parte del generale Al Sisi. Il vecchio presidente Mubarak, che era stato ritenuto da Hillary Clinton il responsabile delle rivolte di Piazza Tahir, è stato scagionato e scarcerato. Questo dell’Egitto il secondo fiasco della amministrazione Obama: un regalone fatto alla Russia di Vladimir Putin.

Per tentare di risolvere il caos geopolitico lasciato dalla amministrazione Obama, sia per quanto riguarda i confini orientali dell’Europa, e dunque la questione della Ucraina e della Crimea, sia il groviglio del Medio Oriente, Donald Trump deve trattare da una posizione di forza. La escalation verso la Corea del Nord serve a piegare politicamente la Cina, facendole ammettere la necessità di un intervento militare americano. Serve una crisi di alleggerimento rispetto alle tensioni in Medio Oriente, per dar modo di trovare un nuovo equilibrio.

Donald Trump deve guadagnare acqua: consenso sui media e nelle cancellerie. Può darsi che con la Russia ci sia tutto un teatrino già pronto, ma in Siria va trovata prima una soluzione politica: l’escalation militare e la caduta violenta di Assad porterebbero ad un caos analogo a quello della Libia. Invece di aprire un conflitto commerciale per riequilibrare i conti americani, una prospettiva che i mercati temono come il demonio, Trump cerca il diversivo militare. Cerca di riconquistare una posizione di forza da cui trattare sulle questioni economiche: estromette l’Unione europea, la Francia e la stessa Gran Bretagna dalla decisione di attaccare con i missili la base aerea siriana, comunicando la decisione pochi minuti prima del lancio. Agli europei non è rimasto che approvare la decisione ed attendere gli sviluppi.

Mosca, invece, era stata avvertita un’ora e mezzo prima, affinché potesse mettere al sicuro i propri uomini. L’attacco americano era dimostrativo, non era finalizzato a creare una situazione di crisi politica con Putin. Insomma, nessuna vera rottura, solo teatro per accontentare i media. Nel frattempo, il premier cinese si è trovato oscurato ed ora è alle prese con la questione coreana: si era preparato ad un incontro sul piano economico e finanziario, e se ne è trovato uno geopolitico globale, dal Medio Oriente alla Corea del Nord. Deve far vedere al mondo da che parte sta.

Arrivederci alla prossima puntata di: “Donald, il Boss e l’Apprendista”.

(Articolo pubblicato su Teleborsa)

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