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In difficoltà sul fronte interno, con media e opposizione all’assalto dopo le dichiarazioni infelici sui fatti di Charlottesville e il Partito Repubblicano sempre più frustrato, Donald Trump sembra puntare sempre più sulla politica estera per risalire nei sondaggi e ottenere qualche risultato in una presidenza accerchiata. Sotto questa luce deve essere letta l’ultima iniziativa della Casa Bianca, la missione in Medio Oriente di una delegazione di alto livello guidata dal genero del presidente, Jared Kushner, con l’obiettivo di accelerare il complesso negoziato in vista di un accordo di pace tra israeliani e palestinesi.

La delegazione, che oltre a Kushner comprendeva l’inviato per il Medio Oriente Jason Greenblat e la numero 2 del Consiglio di Sicurezza Nazionale Dina Powell, ha attraversato l’Atlantico per fare tappa, oltre che a Tel Aviv e a Ramallah, in Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Un pellegrinaggio che conferma l’intenzione americana, dichiarata sin dall’incontro tra Trump e Netanyahu a Washington di febbraio, di cesellare un processo negoziale che coinvolge, oltre agli attori interessati, anche gli alleati arabi, secondo l’approccio “outside-in”: un movimento in base al quale il sostegno esercitato dal mondo arabo sul dossier israelo-palestinese favorisce il raggiungimento di un accordo finale, il famoso “ultimate deal”, secondo l’espressione usata da Trump. È una strategia che ribalta quella perseguita dagli ex inquilini della Casa Bianca, definibile come “inside-out”, in base alla quale erano israeliani e palestinesi a dover sforzarsi di raggiungere un accordo, perseguito tramite un laborioso processo diplomatico, e presentarlo poi all’attenzione del mondo arabo per ottenerne il placet.

Gli incontri tra Kushner e la sua squadra e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il re di Giordania Abdullah II, il principe saudita Mohamed bin Salman, il principe emiratino Mohammed bin Zayed al-Nayhan e l’emiro del Qatar Sheikh Tamin bin Hamad al Thani hanno preceduto così i faccia a faccia tra i delegati del presidente Usa e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, avvenuto ieri pomeriggio, e con il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, poco più tardi. Ma il clima in cui si sono consumati i pour parler testimonia chiaramente la natura asimmetrica delle relazioni tra la superpotenza atlantica e i due attuali protagonisti del più lungo confronto politico e diplomatico della storia recente. Mentre infatti da Tel Aviv arrivavano i dettagli di un incontro sereno e soddisfacente, con Netanyahu che ha parlato di pace “alla portata” e di un futuro di potenziale prosperità per la regione, dal quartier generale palestinese sono giunti segnali di tutt’altra natura, indicatori di un clima di scetticismo e diffidenza nei confronti dell’iniziativa americana e delle reali intenzioni del presidente Trump.

A Ramallah, infatti, non hanno ancora digerito le effusioni tra Trump e Netanyahu nell’incontro tra i due leader di febbraio alla Casa Bianca, un abbraccio talmente intenso da spingere il capo della Casa Bianca a ripudiare, almeno a parole, il pilastro della diplomazia Usa degli ultimi vent’anni: la politica dei “due Stati per due popoli”. Nella conferenza stampa a margine del bilaterale, Trump si spinse a dichiarare che a lui non interessava se, al termine dei negoziati, il risultato sarebbe stato rappresentato dalla formazione di due Stati confinanti ovvero dalla nascita di un singolo Stato (senza specificare, anche se era chiaro a tutti, se si trattasse di uno Stato ebraico con sovranità sui territori contesi), purché si fosse raggiunta l’agognata pace. Come se non bastasse, nelle parole di Trump uno dei più controversi temi sul piatto del negoziato – gli insediamenti dei coloni ebrei su suolo palestinese – non rivestiva la stessa importanza avuta nella stagione di Obama, che su questo punto ruppe i rapporti con Netanyahu, al punto che le relazioni tra i due Paesi avrebbero raggiunto il minimo storico. La successiva correzione di rotta della Casa Bianca, che in più occasioni ha ribadito sia l’intenzione di perseguire la costituzione di due Stati, sia il non gradimento della politica israeliana degli insediamenti, non ha evidentemente rimosso il sospetto palestinese di una nemmeno troppo velata parzialità di Trump a favore di una parte in causa, come peraltro evidenziato dalle numerose dichiarazioni pro-Israele durante la campagna elettorale a partire dalla volontà, in caso di vittoria alle urne, di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Mossa incendiaria poi rimandata alle calende greche per evitare di infiammare gli animi del mondo arabo.

Insomma, se l’intenzione della Casa Bianca è quella di tornare all’attivo con un risultato concreto in politica estera, la strada – almeno per quanto concerne il dossier più rovente di sempre sul tavolo dei presidenti Usa – è ancora in salita. Non che l’approccio “outside-in” non sia promettente: in questa fase storica, in cui il mondo arabo e gli Stati Uniti sembrano pienamente allineati anche a causa della rinnovata rivalità con l’Iran, la strategia potrebbe rivelarsi alla lunga vincente. Ma è certo che, per superare la diffidenza reciproca di Ramallah e Tel Aviv, ci vorrà molto più della mobilitazione e della buona volontà di un giovane inesperto come Kushner. Come direbbe Matteo Renzi, il presidente Trump dovrà metterci la faccia.

Stati Uniti kushner

Cosa succede tra Stati Uniti e mondo arabo

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