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Oggi Politico.eu, media americano che ha ramificazione in Europa, ospita un op-ed di Elisabeth Braw, analista che gravita attorno all’Atlantic Council. Nel suo pezzo Braw rende onore all’impegno militare italiano, e l’attacco è già significativo: “È arrivato il momento di dare all’esercito italiano rispetto”.

Se si mettesse a valore la sola spesa militare, l’Italia sarebbe un “povero” membro della Nato, dice Braw, in quanto investe solo l’1,11 per cento del Pil, ben al di sotto del tetto del 2 per cento previsto dal vertice che nel 2014 si tenne in Galles e in cui l’alleanza decise di dare un livello minimo di investimenti a tutti i membri per spalmare e bilanciare le spese. Quella era una necessità fortemente spinta dagli Stati Uniti, che sono il paese che più di tutti gli altri si sobbarca l’onere economico dell’Alleanza Atlantica e che in questi mesi di presidenza Trump è tornato fortemente sulla linea: alle spese si partecipa insieme se si vuole una difesa comune.

Ma l’analista del think tank di Washington sottolinea come l’impegno militare italiano va ben oltre la semplice contabilità economica. Per esempio, la Guardia Costiera e la Marina sono in prima linea nel salvataggio dei migranti che attraversano il Mediterraneo dalle rotte africane: migliaia di vite che gli uomini delle forze marittime italiane strappano dalla onde ogni naufragio. O ancora, il coinvolgimento italiano in diverse missioni, sia a guida Nato che sotto egida Onu: per esempio il contingente di peacekeeping in Libano (un’area particolarmente delicata dove spurie della guerra civile siriana come Hezbollah entrano in contatto con Israele), o la missione Nato in Afghanistan, o ancora nella Coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico, con advisor militari in Iraq e nel Kurdistan iracheno che sono il riferimento per l’addestramento delle truppe locali.

Su Politico si cita l’Istituto Affari Internazionali, che ha raccolto i dati dell’impegno italiano in uno studio dello scorso anno: 6092 uomini in missione in tre continenti per una spesa di poco più di un miliardo d’euro (e da queste sono escluse i costi dei salvataggi nel Mediterraneo).

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Le forze armate italiane sono generalmente benvolute dalle popolazioni locali dei luoghi in cui svolgono le proprie missioni: e questa integrazione è un ulteriore anello di merito, perché non solo limita l’invasività delle presenza, ma permette anche maggiore collaborazione con le persone del posto e migliori raccolte d’informazioni. È “un paradosso” che “tutti questi sforzi non siano presenti nelle statistiche della NATO”, scrive Braw, e di conseguenza un paese come la Grecia, che spende il 2,4 per cento del Pil in difesa anche se non compie nessuna operazione Nato o UE, sembra più attivo dell’Italia se si andasse a guardare soltanto i bilanci.

A fine aprile, a margine dell’incontro romano col segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, il premier italiano Paolo Gentiloni ha detto: “L’Italia sta attuando e conferma gli impegni presi con la Nato nel vertice del 2014 in Galles. In particolare l’obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari. Ad ogni modo non tutto si misura con la quota di spesa militare rispetto al Pil, su cui il cammino dell’Italia è graduale. Al di là delle risorse economiche, l’Italia disloca la professionalità dei suoi militari in Iraq, Afghanistan, Baltico, Balcani e contro i trafficanti nel Mediterraneo”. Quell’incontro s’è tenuto una settimana dopo della visita di Gentiloni alla Casa Bianca: dell’incontro di Washington il presidente americano aveva confessato una sua forte pressione affinché l’Italia “pagasse di più”, ossia aumentasse gli investimenti militari in ambito Nato. Roma ha fatto sapere che c’è già un piano decennale per arrivare al tetto, ma dovrà essere bilanciato con la situazione economica generale.

(Foto: Difesa.it)

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