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Fatta eccezione per i terremoti, i casi di morbillo e l’addio al calcio di Francesco Totti, per Massimo D’Alema il responsabile di tutte le disgrazie che affliggono l’Italia è Matteo Renzi: bassa crescita, produttività in picchiata, disoccupazione giovanile, povertà dilagante, sperpero di risorse pubbliche a favore dei ricchi, salvataggi bancari con i soldi dei contribuenti, collusione incestuosa con i poteri forti, ammucchiate immorali con Denis Verdini e Silvio Berlusconi, dilettantismo politico, ceto di governo scadente, rottura sentimentale con gli elettori di sinistra, isolamento sociale del Pd e tante altre nequizie ancora (intervista ad Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 26 maggio).

Mentre scorrevo l’intervista, pensavo alla definizione di jettatura che ho letto in un magnifico saggio dell’eminente antropologo e storico delle religioni Alfonso M. Di Nola: “Per jettatura si deve intendere l’influenza nefasta esercitata da uomini su altri uomini, intenzionalmente o involontariamente. Il suo discredito è legato a un presunto potere speciale dell’occhio, capace di sprigionare un influsso distruttivo, ossia quel ‘gettare il male’ da cui deriva il termine” (Jettatura, in L’identità degli italiani, a cura di Giorgio Calcagno, Laterza, 1998).

In verità, nelle culture popolari domestiche lo jettatore non opera soltanto attraverso lo sguardo, il cosiddetto “occhio secco” dei dialetti meridionali, ma anche attraverso un insieme di segni distintivi che formano uno stereotipo da aggiungere ai celebri Caratteri di Jean de La Bruyère (1688): ad esempio, avere il volto triste e rassegnato, parlare con voce querula, fare discorsi sulle sventure personali o di persone conosciute. È il personaggio, per capirci, immortalato da uno straordinario Totò nel film “Questa è la vita” (1954).

Come ricorda Di Nola, le radici storiche del fenomeno sono remote, almeno quanto la condanna dello sguardo geloso del bene altrui. Gli antichi lo chiamavano “invidia”, che etimologicamente significa “guardare contro”. Forse il neologismo non è splendido, ma rende l’idea: oggi potremmo chiamarlo “rosicamento”, che etimologicamente nel dialetto romano significa consumarsi per il successo o la fortuna altrui.

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