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Può sembrare un’incoerenza che il comandante di AfriCom del Pentagono offra una photo-opportunity a un capo miliziano che sta a sua volta offrendo alla Russia una piattaforma logistica per l’attività in Libia. Ma la visita che porta il generale Michael Langley a farsi fotografare mentre stringe la mano a Khalifa Haftar, capo clan di una milizia famigliare molto esposta con Mosca, dimostra tutte le complessità libiche.

Innanzitutto racconta che Haftar, signore della guerra di Bengasi e protettore militare della politica in Cirenaica, resta in qualche modo un interlocutore che non può essere escluso da piani per il futuro del Paese. Poi spiega che la sua milizia ha più sfaccettature, e infatti uno dei suoi figli (ormai integrati nel business politico-militare e criminale di famiglia) dialoga da sempre con gli Stati Uniti: recentemente per esempio, Saddam Haftar ha incontrato varie volte businessman americani per parlare di infrastrutture (voci mai ufficializzate dicono che tra gli incontri uno è stato a Roma). Da non dimenticare inoltre che Khalifa Haftar stesso ha cittadinanza americana, per un passato utile alla Cia in epoca gheddafiana.

Inoltre quella foto racconta che l’alternativa a Tripoli non è così tanto affidabile, altrimenti Washington avrebbe gettato in questi anni il suo peso diplomatico per sostenere il governo nella capitale. E invece gli Stati Uniti lavorano per sostituirlo, perché l’esecutivo di Abdelhamid Dabaiba è giunto da tempo alla conclusione della sua esperienza, non rispettando il mandato onusiano (secondo cui doveva organizzare le elezioni tre anni fa) e creando un sistema corrotto per il sostentamento al potere (le milizie finanziate per avere quel minimo di stabilità vista in questi anni non sono in effetti troppi migliori di quella haftariana).

Langley è stato in Libia — incontrando pure Dabaiba — anche per mostrare le insegne della sua divisa in mezzo al caos in evoluzione. Gli Stati Uniti hanno chiaro da tempo che la destabilizzazione sia problematica per loro stessi e per una serie di alleati e partner europei e africani che ne subiscono le conseguenze — e la stabilizzazione è anche la migliore ricetta contro la Russia. Tuttavia gli Usa evitano, dopo il 2011, coinvolgimenti eccessivamente diretti. Mandano messaggi, facilitano dinamiche, gestiscono il disordine. E in questa fase, la presenza americana serve per evitare il ritorno delle armi; perché la divisione tra Est e Ovest è tornata attiva; perché all’interno dei fronti stessi (soprattutto in Tripolitania) ci sono grosse tensioni; perché attori esterni potrebbero approfittare della situazione per spingere i propri interessi (e tra questi, è noto che la Russia capitalizza dal caos).

Tra le preoccupazioni pratiche c’è innanzitutto lo standoff sul petrolio, con le forze della Cirenaica che hanno imposto il blocco dei pozzi nella regione orientale (dove ne è distribuita la maggioranza) in reazione alla decisione di Dabaiba di cambiare il governatore della Banca centrale libica (CBL), Sadiq al Kabir (che gode del sostegno americano). Gli Stati Uniti hanno sufficiente possibilità per forzare una rapida risoluzione della crisi imposta contro la Noc, la petrolifera nazionale, se decidessero di agire con decisione: per esempio possono muovere leve finanziarie contro tali cambiamenti, dato che la gestione/controllo di certi asset passa anche dai grandi istituti di Wall Street. Ma visto che l’amministrazione Biden è arrivata a conclusione del mandato e che sia la candidata di successione Kamala Harris che il repubblicano Donald Trump hanno già diversi dossier sul tavolo, potrebbero non avere la forza di volontà per un intervento decisivo. In fondo, sebbene ci sarebbe bisogno di una direzione americana, sulla Libia per ora non ci sono interessi che possano far scomodare eccessivamente Washington. Per ora, perché gli interessi esistono e quella movimentata pare la peggiore crisi di questi anni.

Il controllo della Russia è uno di questi interessi americani, poi c’è una questione tattica-logistica che riguarda la distribuzione delle forze americane in Africa, e un altro interesse potrebbe essere il contenere l’influenza cinese nelle relazioni con Tripoli: tutto affrontabile con un nuovo governo. Includendo Haftar si annacquerebbe in qualche modo il peso della sua relazione con Mosca; sostituendo Dabaiba si potrebbe trovare qualcuno meno forzato nel dover attrarre capitali cinesi; inoltre il nuovo esecutivo potrebbe aprire spazi di gestione tattico-logistica per Africom.

Tuttavia, dicono fonti libiche che se gli Stati Uniti o qualcun altro (sottinteso: anche l’Italia) non interverranno rapidamente e con forza, probabilmente ci vorrà molto tempo prima che i player libici raggiungano una qualche intesa di loro spontanea volontà, visto la profondità di interessi e divisioni. Questo scontro segna infatti l’ultima fase di uno sforzo decennale da parte delle fazioni armate della Libia per consolidare la presa dello stato, con le milizie che ormai hanno le mani sui pilastri essenziali dell’economia del Paaese nelle loro sfere di influenza concorrenti. Pertanto, il controllo sulla banca centrale e sulla compagnia petrolifera è ora un campo di battaglia in cui le élite politico-militari competono per il dominio, come spiega Hafed al Ghwell, direttore della North Africa Initiative della Sais, in una recente analisi per Arab News.

Ma ciò minaccia una già fragile pace relativa, con il prezzo del petrolio che è aumentato del 7% lunedì, come conseguenza delle schermaglie libiche, ma per ora si è poi gradualmente aggiustato. Dietro le quinte inoltre, la banca centrale fa parte di un più grande gioco di scacchi geopolitico russo, dice Jason Pack, fondatore di Libya-Analysis. Mantenere un blocco petrolifero non cambierebbe il risultato di come funziona la banca centrale, ma consentirebbe alla Russia di perseguire i suoi interessi nazionali in Libia. “Questo blocco petrolifero non ha nulla a che fare con i problemi sottostanti della CBL”, ha spiegato Pack a Foreign Policy. È “una crisi interamente fabbricata per raggiungere obiettivi strutturali russi più grandi […] È molto vantaggioso per i russi fare qualsiasi cosa per tenere fuori il petrolio e danneggiare l’amministrazione Biden in vista delle elezioni”.

In sostanza, il petrolio libico fuori dal mercato conviene a Mosca, perché mantiene i prezzi più alti e dunque le vendite russe sono più remunerative e l’Occidente va più in difficoltà con i propri acquisti (prezzi alla pompa alti sono stati sempre un problema molto sentito dagli elettori americani, che tra poco andranno alle presidenziali). La quota libica della produzione dell’Opec è del 3%, pari a quei circa 1,2 milioni di barili quotidiani recentemente raggiunti. La maggior parte della produzione va in Europa: la Libia nel 2024 è tornato a essere primo fornitore italiano. Mentre in generale quel milione di barili è una quantità relativamente piccola, quel petrolio non può essere facilmente sostituito, avvertono gli economisti, e quindi ha un profondo impatto sui prezzi globali e sulla sicurezza energetica.

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