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Ho sempre pensato che Donald Trump, con la sua maschera improbabile e il suo stile fra il goffo e il provocatorio, non potesse essere liquidato come un semplice “incidente di percorso” della democrazia americana. E che non solo egli fosse la risposta sbagliata a domande spesso serie e ben poste, ma che anche molte delle sue risposte, fatta la tara della guasconeria e della semplificazione, fossero corrette e ineccepibili in una normale dialettica democratica. Più precisamente, ho come l’impressione che, per uno di quei capovolgimenti dialettici di cui la storia è maestra, siano stati proprio Obama e la Clinton, almeno in parte, per quello che hanno rappresentato, i padri putativi di un così pittoresco personaggio.

Questa chiave di lettura, se ha un senso, sposta decisamente l’attenzione dai problemi economici di quella che era una volta l’affluente “classe media americana”, che sicuramente hanno avuto un loro peso, e anche rilevante, nell’elezione presidenziale, ad aspetti più immateriali e simbolici che però hanno anche loro un valore non secondario in una società democratica avanzata. Essi infatti lavorano nientemeno che sulla costruzione che ognuno fa della propria identità, del bagaglio di valori e idee con cui si orienta nel mondo e cerca di dare un senso alla propria esistenza.

Non si insisterà allora mai abbastanza, in questa prospettiva, sull’opera di decostruzione radicale che sulla concezione del mondo americano comune ha compiuto, negli ultimi quaranta anni, l’ideologia del “politicamente corretto”. La quale ha non solo segnato il trionfo di un pensiero astratto che, ragionando per gruppi o “minoranze”, ha eroso la centralità che nella mente americana aveva l’individualità, cioè ogni singolo individuo con la sua capacità di farsi e conquistare un posto nel mondo. Essa, più radicalmente, ha segnato il trionfo di un pensiero non dialettico, analitico e non sintetico, fondato su un’idea di razionalità astratta e avulsa da ogni senso della storia e del tempo. Allergico alla complessità, al chiaroscuro di cui è sempre fatta la stoffa del reale, il “politicamente corretto” ha perciò coinciso, causa ed effetto ad un tempo, con quella che è forse la più grave perdita delle nostre società, la cifra più profonda anche se non immediatamente visibile della nostra crisi: il senso della storia.

Coglie perciò nel segno, a mio avviso, Trump, quando, seppur tardivamente, e per smarcarsi forse opportunisticamente dalle polemiche sulle sue presunte responsabilità messe in atto dal mainstream mediatico, pone l’accento su quello che, nella storia degli assurdi scontri di Charlottesville fra “primatisti” e “antirazzisti”, a noi era sembrato già in prima battuta ridondante. In un tweet di ieri egli ha infatti colto uno degli elementi più “osceni” dell’intera vicenda, che certamente non giustifica minimamente né certe forme di protesta né assolutamente il razzismo e la barbara ideologia dei “primatisti”, ma che comunque necessita di non passare in secondo piano, non fosse altro perché, oltre ad essere stato in questo caso l’elemento “scatenante” degli incidenti, non può essere trattato alla stregua di un caso isolato.

Mi riferisco alla rimozione delle statue dei protagonisti della storia del passato, e a certe vestigia di esso (vi ricordate la proposta della Boldrini di cancellare i segni del fascismo dall’architettura di Roma?). A quei protagonisti vengono imputate spesso colpe morali che effettivamente ebbero ma che tuttavia vanno giudicate in sede storica. Essi comunque hanno rappresentano la storia di un Paese. La quale non può essere riscritta o cancellata in nessuno dei suoi aspetti, fossero anche i più malvagi,  perché, come una mente adusa al pensiero dialettico e storicistico sa, e come fino ad oggi ha saputo la comune saggezza dei popoli e il buon senso, la vita anche individuale è un inestricabile sinolo di bene e male ove, venuto meno il secondo elemento, non solo scomparirebbe anche il primo, ma non si riuscirebbe nemmeno a capire il livello di consapevolezza morale e di progresso civile a cui si è finalmente arrivati.

Detto in modo più semplice, nella loro insipienza, le piccole menti politicamente corrette non sanno che, con le loro azioni, stanno semplicemente segando le gambe alla sedia su cui sono seduti. E che la storia passata va pensata secondo la categoria della necessità, nella consapevolezza che “il vero è l’intero” e che, solo in questa modo, essa può essere capita e metabolizzata, facendosi veicolo di nuova storia all’insegna, si spera, della libertà e della responsabilità.

Il rispetto della storia, e il ragionare con senso storico e in modo critico e dialettico, sono nientemeno che i presupposti della nostra civiltà, oggi sommersa, anche nei dispositivi educativi, da un pensiero meccanicistico e iperpositivistico fondato su test, valutazioni “oggettive” e parametri quantitativi e astratti. Probabilmente, la crisi dell’Occidente inizia nei luoghi e nei modi della trasmissione del suo sapere, ma questo è un discorso da affrontare in altra sede.

Quello che qui mi premeva sottolineare è il fatto strano, ma significativo, che quasi nessuno in questa vicenda abbia posto attenzione sulla rimozione della statua del generale sudista: una rimozione che, almeno nell’immaginario comune, avrebbe dovuto richiamare quelle che erano in opera nei Paesi del totalitarismo comunista quando cambiavano gli equilibri di potere al vertice. È un paradosso certo, ma l’onestà intellettuale ci impone di riconoscere che, seppur espresso in un linguaggio elementare e improprio (la “bellezza” delle statue non c’entra nulla), è toccato anche questa volta al più “ignorante” dei presidenti ricordarci la più essenziale delle verità: “la storia non può essere cambiata”.

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