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La sedicente agenzia stampa dello Stato islamico, Amaq News ha diffuso una breve informativa in cui riporta la rivendicazione del’IS per l’attacco di Londra di mercoledì.

LA FORMULA CLASSICA

La formula, come già visto in diversi altri casi, è standardizzata: l’agenzia – che di fatto è un organo di propaganda del Califfo – diffonde una specie di breaking news in cui definisce che alcune sue “fonti” hanno riferito che l’attentatore che ha ucciso tre persone davanti al parlamento inglese è un “soldato dello Stato islamico”, il quale ha risposto “alla chiamata” di colpire i cittadini dei paesi che compongono la Coalizione internazionale a guida occidentale che combatte il Califfato. Nota: molti dei membri di quella stessa coalizione erano riuniti a Washington, in sede Nato, per parlare proprio della guerra all’IS nelle stesse ore dell’attentato di Londra, ma cercare programmazione dietro a queste coincidenze è prematuro; altra coincidenza: il 22 marzo di un anno fa un commando mandato dalla Siria dagli Amn al-Kharij (più noti come solo Amni, o Emni, i servizi segreti per così dire dell’IS) colpiva al centro di Bruxelles.

IL RIVENDICO IN ITALIANO

Uno degli aspetti più interessanti della rivendicazione dello Stato islamico sull’attentato di Londra è che circola anche una versione in italiano — e altre lingue — del claim di Amaq, circostanza non troppo comune. Il significato è da approfondire: forse perché tra le vittime c’è una donna romana rimasta ferita? Un precedente: il caso dell’attacco di Berlino, ma in quella circostanza l’attentatore Anis Amri fu ucciso in Italia.

L’APPELLO, CHE CONOSCIAMO

Quando Amaq cita la “chiamata” si riferisce a quanto chiesto e prescritto da Mohammed al Adnani, ex capo dell’Emni ed ex portavoce internazionale del Califfato che un paio di anni fa chiese esplicitamente a simpatizzanti e proseliti di bloccare l’esodo verso il Siraq e di colpire gli infedeli direttamente a casa loro. Un messaggio velenoso e potente, perché abbinato a un invito: non preoccupatevi di costruire un cellula e un piano articolato, spiegava Adnani (ucciso il 30 agosto dello scorso anno in Siria da una bomba intelligente americana), ma organizzatevi con quello che avete. Un coltello, un’auto, un sasso, a mani nude: l’importante è attaccare coloro che ci attaccano – diceva lui. L’attentatore di Westminster, che secondo le dichiarazioni della premier Theresa May è di origini inglesi e noto come simpatizzante degli ambienti radicali islamici all’Mi5, ha eseguito alla lettera. Ha affittato un Suv e lo ha lanciato sull’affollato marciapiede del Westminster Bridge.

IL VEICOLO

La Hyundai i40 grigia usata per l’attacco è un’auto agile ma potente, grossa e maneggevole, che rispecchia quanto riportato sul numero di novembre 2016 in una delle più recenti pubblicazioni del Califfato, Rumiyah (che è un termine arabo che significa Roma). Due paginate che spiegavano come scegliere il mezzo, come muoversi, come passare al massimo sotto traccia – su Formiche.net se n’era parlato ai tempi dell’attentato di Berlino ai mercatini di Natale, eseguito in quel caso con un tir. Usare un veicolo come arma è talmente comodo che chiunque in grado di guidare diventa un “soldato” per la strategia del Califfo: uccide non solo investendo, uccide creando panico nella fuga, e infatti sembra che una delle persone morte sia sta presa sotto da un bus a due piani mentre cercava di mettersi in salvo, un’altra si è gettata dal ponte nel Tamigi, è stata ripescata ma è in gravi condizioni.

IL COLTELLO

L’attentatore di Westminster, anche in questo caso seguendo uno schema noto, è poi sceso dal mezzo e ha imboccato la via verso il jihad mortale armato di uno, forse due, coltelli. Ha colpito più volte un poliziotto – che si trovava disarmato davanti al cancello aperto di una delle entrate del cortile dell’House of Parliament. Il coltello, insieme all’auto, è un altro dei simboli che anche senza rivendicazione potevano far pensare all’IS. Adnani, che nella narrativa globale che attira proseliti da tutto il mondo ha quasi più valore del Califfo stesso, lo teneva sempre in bella mostra. In alcune delle sue più celebri foto – sono poche le immagini, perché la sicurezza interna è da sempre una paranoia, a volte inutile, del gruppo – aveva un modello di quelli che il noto documentarista americano Bear Grylls ha marchiato con le sue iniziali. Dal marketing televisivo a quello simbolico: sgozzare è simbolo di sacrificio, un video dell’IS pubblicato pochi mesi fa spiegava come uccidere un prigioniero tagliandogli la giugulare e poi finire il lavoro decapitandolo. Un atto del genere, nell’agosto del 2014, ai danni del giornalista americana James Foley, è stata la dichiarazione di guerra globale del Califfato (prima, le anime belle che adesso chiedono pari trattamenti per i morti in Occidente a quelli che il radicalismo islamico fa in Medio Oriente, si stavano perdendo parte della storia, ossia quando l’Isis mieteva vittime tra la Siria e l’Iraq, ma questo è un altro discorso).

L’ATTENTATORE

La polizia ha diffuso alcune informazioni più precise sull’attentatore: si chiama Khalid Masood, ha 52 anni, è nato nel Kent. I detective credono che abitasse nelle West Midlands, usava vari alias. Non è oggetto di indagini in corso e non vi era alcuna intelligence prima circa la sua intenzione di portare a termine un attacco terroristico. Era noto per reati minori, aggressione e possesso di armi improprio (condannato nel 2003 perché aveva un coltello addosso). Mai condannato per terrorismo. La cosa che salta all’occhio prima di tutte le altre è la sua età: in media i jihadisti che hanno colpito in Europa hanno meno di trent’anni.

UN LUPO SOLITARIO?

Come in diversi casi precedenti, si sta parlando di azione di un “lupo solitario”: anche May ha sottolineato che apparentemente l’attentatore ha agito da solo. Ma anche in questo caso vanno specificati alcuni aspetti. Se lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco significa che sa dell’esistenza di qualche materiale, un video, una lettera, o quant’altro, con cui l’aggressore ha dedicato, intestato, l’attacco al Califfo – è uno degli unici precetti di Adnani, attaccate quando e come volete, ma lasciate un’intestazione. Il fatto che la rivendicazione sia arrivata relativamente presto – nel caso di Berlino, per esempio passarono alcuni giorni – può far presupporre che probabilmente i canali media dell’IS quel materiale ce l’hanno già. Il Califfato non rivendica attentati se non ne è certo, perché il vuoto comunicativo che una figuraccia di una falsa rivendicazione potrebbe produrre, creerebbe problemi a un gruppo che vive quasi esclusivamente sul proselitismo. Inoltre: è ormai noto che questi attentatori self-made abbiano alle spalle una rete di appoggio pensata e gestita da uomini dell’organigramma califfale. Contatti con predicatori e ispiratori, ma anche con persone che li aiutano nelle scelte da adottare per l’azione (su questo fa bibliografia un articolo/inchiesta della specialista di terrorismo del New York Times Rukmini Callimichi): e dunque, parlare di “lupo solitario” non ha propriamente più troppo senso, anche se si tratta di attacchi non pianificati direttamente in Siria o Iraq. Il “controllo remoto”, come lo ha chiamato Thomas Jocelyn, un altro ricercato sul terrorismo della Foundation for Defense of Democracies, vale più o meno tanto quanto una pianificazione.

LE MILLE FERITE

Nel 2010 Ben Venzke, dell’IntelCentre, spiegò al New York Times che mai si era trovato di fronte “a una così dettagliata descrizione della filosofia, degli intenti e dei prossimi passi” di un’organizzazione terroristica. Si parlava di al Qaeda e della cosiddetta strategia dei “piccoli mille tagli”, o “operazione emorragia”. Il gruppo che ancora era guidata da Osama Bin Laden e che in Iraq era semi-indipendente sotto l’egida dei discendente di Abu Musab al Zarqawi, il leader mitologico ancora venerato come un semi-dio dagli uomini dell’attuale Stato islamico, aveva pensato di colpire in Occidente tralasciando l’effetto mastodontico dei grandi attentati che distrussero le Torri Gemelle, o squarciarono Madrid e Londra. Stava pensando a uno stillicidio di mini-attentati che avrebbe sfinito il nemico dissanguandolo. In quest’ottica, si spiegava Inspire, la rivista qaedista (la prima a suggerire di usare auto come armi) poco contava il risultato, le vittime, i morti. È il danno culturale l’effetto: “Per abbattere l’America non abbiamo bisogno di un grosso colpo. In questo clima di fobia sulla sicurezza è più fattibile mettere in piedi piccoli attacchi che richiedono meno partecipanti e meno tempo. Per aggirare le barriere di sicurezza che l’America ha così faticato a erigere” diceva sulla rivista Anwar al Awlaki, predicatore storico, ancora molto in voga tra Raqqa e Mosul, yemenita con cittadinanza americana. La “pressione”, anche per gli attacchi falliti, che impongono comunque costi e instabilità tra le popolazioni.

 

 

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