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In un’analisi pubblicata sul sito del think tank European Leadership Network, Carlo Trezza, ex ambasciatore italiano presso l’Ufficio delle Nazioni Unite per il disarmo ed ex presidente del Missile Technology Control Regime, ha parlato della complessità del quadro politico-militare nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Europa. Argomento trattato anche nell’incontro di venerdì tra Donald Trump e Angela Merkel.

Uno dei temi centrali è la questione nucleare, anche alla luce della strana intervista rilasciata qualche settimana fa da Trump alla Reuters, in cui il presidente americano ha annunciato la possibilità che Washington torni sulla via del riarmo per non perdere il ruolo di leadership nel settore atomico – una posizione completamente opposta a quella del suo predecessore Barack Obama, che in vari modi si era impegnato per la non proliferazione.

Secondo Trezza l’Europa ha comunque “l’opportunità di individuare un terreno comune e di influenzare il pensiero strategico degli Stati Uniti”. Bruxelles deve cercare di lavorare nel solco del partenariato euro-atlantico e promuovere il multilateralismo – che a Trump non piace, preferendo azioni bilaterali – impedendo agli Stati Uniti di ritirarsi da importanti accordi come il New START, su cui però la Casa Bianca ha espresso scetticismo, l’accordo di non proliferazione nucleare un “bad deal“, come quello sul nucleare iraniano, che invece per Trezza è il più grande successo ottenuto sul tema “bomba-atomica” negli ultimi anni. L’esperto italiano sostiene che anche nella delicata situazione in Corea del Nord l’UE può svolgere “un ruolo”: “L’Europa non è direttamente coinvolta nella crisi nordcoreana, ma, sulla base della propria esperienza nel superare le tensioni e le divisioni in ambiente nucleare, può svolgere un ruolo positivo nell’affrontare una situazione che rappresenta una minaccia molto più pericoloso di quello dall’Iran”.

Pyongyang può essere, per priorità, un effettivo terreno di incontro. Washington considera la situazione della Corea del Nord in cima alla lista delle minacce, e venerdì il segretario di Stato, Rex Tillerson, ha detto che la “pazienza strategica” americana nei confronti del leader pazzoide Kim Jong-Un è ormai finita. Anche l’opzione militare è sul tavolo. Tillerson, in visita a Seul, ha detto che gli Stati Uniti non intendono negoziare con la Corea del Nord, e intanto davanti alle continue provocazioni e all’incessante progredire del programma atomico nordcoreano, inaspriranno le sanzioni, poi penseranno a un attacco preventivo. Le sanzioni erano la linea obamiana, sulla traiettoria delle amministrazioni Clinton e Bush che lo avevano preceduto. Il metodo con cui la Casa Bianca ha cercato di portare allo stremo delle forze Pyongyang per poi costringerlo al tavolo negoziale a rinunciare alle ambizioni nucleari: non hanno funzionato, e Trump sembra cambiare rotta verso un atteggiamento più aggressivo. “Sono stati vent’anni di approcci falliti, che hanno incluso milioni di dollari in aiuti alla Nord Corea come incoraggiamento per spingerla su una via diversa” ha detto Tillerson. “La Cina ha fatto poco”, ha aggiunto Trump, alla vigilia dell’arrivo a Pechino di Tillerson (oggi, sabato 19 marzo). Dichiarazioni che intendono richiamare l’attenzione della Cina, considerata protettrice diplomatica nordcoreana e l’unica in grado di influenzare la politica di Kim. Negli ultimi mesi si è assistito a un incremento delle capacità tecnologiche nordcoreane, con diversi test (tra cui quelli nucleari nel 2016), che hanno permesso lo sviluppo di missili balistici probabilmente più funzionali di quelli già noti. L’interessamento americano arriva in questo momento sia per questi aspetti tecnici, ma anche per dimostrare il proprio impegno nel Pacifico come contrappeso all’assertività cinese e come garanzia per alleati regionali come la Corea del Sud e il Giappone. Di questa mobilitazione americana fanno parte attività di deterrenza e preparazione di vario genere, dai sistemi anti-missile che alla fine saranno schierati in Corea del Sud, agli elementi del Team Six dei Navy Seals, gli incursori che eliminarono Osama, pronti anche – secondo un’analisi di Guido Olimpio e Guido Santevecchi uscita sul CorSera – per una possibile decapitazione del regime. Al largo delle coste pacifiche del Sud naviga inoltre la portaerei “Carl Vison” col suo gruppo da battaglia.

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