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La stabilizzazione della Libia rimane la priorità assoluta della politica estera del nostro Paese. Questo è il messaggio che il nostro premier Paolo Gentiloni ha cercato di trasmettere a Trump la settimana scorsa, quando è stato ricevuto alla Casa Bianca. Ma la missione a quanto pare è fallita. “Non vedo un ruolo” degli Stati Uniti nella risoluzione della crisi libica, ha affermato il tycoon nella conferenza stampa congiunta a margine del bilaterale. Gli Stati Uniti hanno altro cui pensare.

Gentiloni, che era partito per Washington cercando di attirare l’attenzione degli americani sulla sicurezza del Mediterraneo, è tornato a mani vuote. Senza riuscire a fugare il sospetto che gli Stati Uniti siano ormai disinteressati alla risoluzione di una crisi, quella libica, che gli stessi americani hanno contribuito ad innescare con l’intervento Nato del 2011. Ma l’indifferenza degli Stati Uniti è solo una delle preoccupazioni italiane, e non la principale. Stando alle rivelazioni del Guardian, uno dei candidati al ruolo di inviato speciale Usa per la Libia, Sebastan Gorka, propende per una partizione del Paese mediterraneo in tre, sulla base della divisione amministrativa risalente all’era ottomana: Cirenaica ad est, Tripolitania a nordovest, Fezzan nel sudovest. Se questo orientamento dovesse confermarsi, sarebbe uno smacco per il nostro Paese, che più di altri si è adoperato per la nascita del governo di accordo nazionale di Tripoli guidato da Fayez al Sarraj. Un governo che però non è riuscito ad imporre la sua autorità nemmeno nella capitale, dove le forze islamiste ne insidiano il potere, figurarsi nella Cirenaica dove opera il nemico numero uno di Serraj, il generale Haftar.

Il cinismo americano rischia di mettere la pietra tombale sulla speranza italiana di aver trovato un partner libico in grado di riportare ordine nel Paese e di neutralizzare i trafficanti che operano impunemente in Libia riversando fiumi di migranti in Italia. Gli sbarchi nel nostro Paese sono incessanti e continuano ad aumentare, segnando un +40% rispetto all’anno scorso. Senza la sponda americana, l’Italia è di fatto rimasta sola a sostenere Sarraj. Che rischia di soccombere di fronte alle spinte destabilizzanti che promanano dall’interno come dall’esterno del paese. Egitto, Emirati Arabi Uniti e ora anche la Russia non nascondono la propria avversione nei confronti del governo tripolino e hanno da tempo fatto una scelta di campo a favore di Haftar, l’unico ritenuto in grado di soffocare l’onda islamista.

Ad approfittare di questa situazione potrebbe essere, di nuovo, lo Stato islamico. Le cui milizie, cacciate da Sirte l’anno scorso grazie all’offensiva congiunta delle milizie locali e dell’aviazione Usa, si sono semplicemente riposizionate nelle regioni desertiche del sud. La possibilità che le milizie jihadiste rialzino la testa è stato, non a caso, uno degli argomenti che Gentiloni aveva portato con sé a Washington nel tentativo di persuadere Trump a non disinteressarsi della Libia. Trump ha però confermato che, se la minaccia dovesse ripresentarsi, non esiterebbe a intervenire. Senza che ciò lo vincoli in qualsiasi modo ad una soluzione politica della crisi o, cosa decisamente improbabile, ad uno sforzo di nation building.

L’Italia, a questo punto, non ha molte opzioni. Trovare una sponda europea è difficile, visto che le principali potenze del continente si muovono in ordine sparso in Liba e, sul dossier dei migranti, alzano serenamente le spalle. L’unica via d’uscita sarebbe un rinnovato impegno dell’America, magari convincendola che non è nel suo interesse che la Russia accresca ulteriormente le sue posizioni nel Mediterraneo. La carta russa potrebbe trovare ascolto dalle parti della Casa Bianca, nel momento in cui quest’ultima sembra aver ritrovato interesse a studiare una soluzione per un altro dossier rovente sulla scrivania di Trump, quello siriano. Sempre che gli Stati Uniti siano effettivamente interessati a impegnarsi in una risoluzione politica della guerra civile nel Levante, cosa su cui nessuno metterebbe la mano nel fuoco.

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