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I terroristi dell’Isis e di al-Qaida sono impegnati in un duro confronto per la leadership di quello che potremmo chiamare il jihadismo internazionale. Il terreno di scontro comprende due guerre aperte – in Iraq-Siria e in Yemen – e un’accanita competizione per il reclutamento delle organizzazioni terroristiche operanti in Africa e in Asia.

La competizione, infine, si estende all’influenza che questi gruppi riescono a esercitare sulle potenziali reclute del jihadismo nel resto del mondo, in particolare in Europa, Russia e Stati Uniti, dove attacchi terroristici, anche sporadici o di impatto limitato, hanno grande eco mediatica: il gran numero di pubblicazioni, cartacee e online, che questi gruppi producono nelle lingue occidentali, oltre che in russo, turco e altre lingue orientali, è la riprova della loro attenzione.

La guerra per l’eliminazione del cosiddetto Stato islamico in Siria e in Iraq procede con lentezza. Le operazioni terrestri sono ora concentrate in Iraq, per completare la riconquista di Mosul. Gli interventi in Siria sono frammentati, a seconda di chi le conduce e dove. La riconquista dei territori controllati dall’Isis è stata sinora compito essenzialmente di formazioni curde; tuttavia l’intervento turco in Siria ha sostanzialmente impedito il ricongiungimento delle due enclave curde nella parte settentrionale del Paese, frustrando uno dei loro obiettivi strategici e rendendo meno “pagante” il loro impegno nella campagna terrestre. Il prossimo obiettivo dovrebbe essere la riconquista della capitale siriana dell’Isis, Raqqa, ma i tempi dell’operazione non sono chiari.

È probabile che questa situazione di incertezza non si risolva pienamente fino a che non sarà stato trovato un accordo sul futuro della Siria. Le divergenze sono profonde ed è fortissima l’incertezza sulle reali intenzioni della nuova amministrazione americana.

Inizialmente, sembrava che Donald Trump volesse concludere un accordo con Vladimir Putin – e attraverso di lui, indirettamente, anche con Bashar al-Assad e con l’Iran –, ma la decisione di bombardare una grande base aerea siriana per dissuadere Assad dall’usare armi chimiche, suggerisce ipotesi diverse. Anche il recente accordo di Astana, mediato dai russi e dagli iraniani, è rimesso in discussione. L’Isis guadagna tempo, ma le sue prospettive non sono brillanti, neanche nei territori africani e negli altri Paesi islamici.

Il gruppo ha legato la sua strategia all’instaurazione immediata del Califfato e cioè, in pratica, al controllo esclusivo di un territorio consistente. Questo obiettivo è ormai direttamente minacciato in Siria e in Iraq e sembra improbabile che possa realizzarsi altrove. Il tentativo di creare una base in Libia è fallito e, per quanto l’affiliato Boko Haram controlli una parte del territorio contiguo al lago Ciad ed esistano aree sotto controllo jihadista in Somalia e altrove, queste non sono sufficienti, politicamente e storicamente, per giustificare la sopravvivenza del Califfato.

L’Isis ha quindi un forte bisogno di successi che accompagnino un suo cambio di strategia, che non appaia solo come una sconfitta. Da un lato, ciò accresce la pressione sugli Stati arabi dove i jihadisti possono sperare di attuare un cambio di regime a loro favore (anche se tale ipotesi sembra per il momento debole e lontana). D’altro canto, esso segue la strada indicata da un famoso imam terrorista, Anwar al-Awlaqi – membro di al-Qaida dal doppio passaporto americano e yemenita, ucciso dagli americani nel 2011, ma rimasto fonte di ispirazione dei terroristi di tutte le denominazioni – il quale sosteneva l’opportunità di addestrare e utilizzare terroristi già stabiliti nei Paesi occidentali. Poco importa se essi riescono o meno a raggiungere gli obiettivi prefissati, perché comunque le loro azioni, che non costano nulla alle organizzazioni terroristiche, risulteranno fonte di disordine e di terrore.

L’Isis avrebbe persino creato una struttura ad hoc – alla cui direzione sarebbe stato inizialmente il portavoce dello Stato islamico, Abu Muhammad al-Adnani, ucciso dagli americani nel 2016 – che produce materiale propagandistico e manuali di istruzione per condurre attentati “fai da te” e addestra alcuni terroristi con passaporto occidentale per farli poi rientrare nei loro Paesi d’origine e organizzare cellule che potranno o meno utilizzare la manodopera locale disponibile. Le sconfitte militari subite dallo Stato islamico in Siria, Iraq e Libia – come già anni or sono per al-Qaida, quando perse le sue basi in Afghanistan – rendono molto difficili grandi operazioni terroristiche, costose e lunghe da preparare, come furono gli attacchi dell’11 settembre 2001, e rendono più appetibili gli attacchi improvvisati e “fai da te”.

Può quindi sembrare che i successi militari contro l’Isis si ripercuotano negativamente sulla nostra sicurezza, moltiplicando gli attentati sul nostro territorio. Ma così non è. Gli attentati dell’11 settembre avvennero quando al-Qaida aveva un rifugio sicuro e non minacciato, e hanno fatto da soli più morti di tutti gli altri che sono seguiti negli anni nei nostri Paesi. È terribile che questa strategia di ripiego faccia tante vittime innocenti, ma sarebbe veramente il massimo della follia se pensassimo di poter comprare l’acquiescenza jihadista rinunciando ad attaccarli là dove a loro fa più male.

Vi spiego perché lievitano gli attentati “fai da te” targati Isis

I terroristi dell’Isis e di al-Qaida sono impegnati in un duro confronto per la leadership di quello che potremmo chiamare il jihadismo internazionale. Il terreno di scontro comprende due guerre aperte – in Iraq-Siria e in Yemen – e un’accanita competizione per il reclutamento delle organizzazioni terroristiche operanti in Africa e in Asia. La competizione, infine, si estende all’influenza che…

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