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Sono frequenti i dibattiti sui tentativi di fondare un nuovo partito di centro. Il format è grossomodo consolidato: qualche servizio televisivo con la colonna sonora della celebre canzone di Franco Battiato, alcuni editoriali sui quotidiani che presentano posizioni contrapposte e, per finire, un convegno che vede coinvolti alcuni “moderati” pronti a firmare un appello per lanciare una nuova proposta politica.

Un censimento riferito agli ultimi tre decenni registrerebbe decine di occasioni del genere e non è un caso che ciò avvenga. Infatti, per alcuni versi, siamo ancora intrappolati nei cortocircuiti causati dal collasso della Democrazia cristiana e, più in generale, del sistema dei partiti della cosiddetta Prima repubblica. È vero che i processi politici sono sempre in continua evoluzione, ma sulla questione del centro siamo nel mezzo di un’eterna transizione, quasi incapaci di elaborare definitivamente il lutto di quella che comunque fu la fine traumatica di un ciclo politico (e di non poche carriere politiche).

Una situazione che ha inevitabili ripercussioni anche sugli altri partiti: la composizione e disarticolazione del Pd da un lato e l’eterogeneità della proposta politica del centrodestra dall’altro ne sono una testimonianza concreta. Come si ricordava, i tentativi di (ri)creare uno stabile partito di centro sono ormai numerosi, ma naufragati per diverse ragioni. Una delle principali è legata alle leggi elettorali adottate nell’ultimo trentennio che ne avrebbero ostacolato la creazione.

In effetti il Mattarellum, e poi anche le successive modifiche con impianto prevalentemente proporzionale, non hanno favorito sulla carta aggregazioni autonome di centro. Ma questa condizione ha perso in larga parte consistenza dopo le elezioni politiche del 2013, quando un solo partito (il Movimento 5 Stelle) ha ottenuto una percentuale altissima di consensi rappresentando a tutti gli effetti un “terzo polo” rispetto alle altre coalizioni in campo (la coalizione di centro risultò quarta). A ciò si aggiunga anche un altro aspetto.

Da diversi anni, alla fatidica domanda se le elezioni si vincono al centro, i politologi hanno risposto che è ancora valido studiare in termini spaziali la politica, ma è necessario adottare una concezione più articolata rispetto alla classica tripartizione sinistra, centro, destra. Una condizione resa ancor più complessa dalla propensione dei cittadini a cambiare con una certa repentinità la loro scelta di voto, relegando nell’album dei ricordi il sistema di appartenenze stabili a un partito.

Un’altra strada da imboccare per analizzare l’enigma del centro politico è allora quella relativa alla dimensione culturale; per farlo occorre domandarsi se esiste una dimensione valoriale, ideale e programmatica abbastanza coerente da contraddistinguere il profilo di un ipotetico partito di centro. La Dc aveva un bagaglio culturale connotato da una chiara visione cristiana e cattolica del mondo, ma oggi la “cultura di centro” è intesa in senso ben più ampio, in quanto include tradizioni politiche che non coincidono strettamente con l’universo valoriale del cattolicesimo in tutte le sue varianti. Il centro è dunque una dimensione politica ormai in crisi?

Non la pensa in questo modo Yair Zivan che ha recentemente curato un libro con un titolo emblematico: The centre must hold. Why centrism is the answer to extremism and polarisation (Elliot and Thompson, 2024) nel quale propone una chiamata alle armi a tutti i centristi sparsi nel mondo. Non si tratta di un semplice manifesto, ma di un’ampia e articolata riflessione a più voci sull’idea e le pratiche di centro rintracciate nell’esperienza di Paesi molto differenti tra loro come, per esempio, Australia, Giappone, India, Brasile, ma che considera anche le esperienze dell’Unione europea e persino dell’America Latina.

Questa raccolta di interventi è utile per capire se ci sono, e quali sono, gli elementi in comune tra contesti così differenti che possano definire la sagoma del “centrismo”. Per Zivan esso è caratterizzato da un set di ideali e principi: l’importanza della moderazione e del pragmatismo, l’accettazione della complessità, il profondo impegno nei confronti della democrazia liberale, la convinzione dell’uguaglianza delle opportunità e, attraverso l’equilibrio delle tensioni che esistono in ogni nazione, l’impegno a migliorare la vita delle persone.

Appaiono enunciati piuttosto vaghi, ma a ben vedere indicano una rotta ben precisa, che forse avremmo dato per scontata qualche anno fa ma non più oggi, specie dopo la riarticolazione degli equilibri geopolitici mondiali. Tuttavia, è indubbio che tali principi possano essere declinati in modi differenti. Però, tutte le possibili combinazioni devono fare i conti con le due tendenze evocate nel sottotitolo dell’opera di Zivan, ossia estremismo e polarizzazione, perché la loro presenza ormai pervasiva può rendere il centrismo inattuale.

Per esempio caratteri come la moderazione, l’accettazione della complessità e la ricerca del compromesso sono considerati del tutto superflui, se non dannosi, perché la logica politica è appunto dominata dall’immediatezza e dalla radicalità. Forse allora la sfida più importante per coloro che si riconoscono in una politica di centro – a partire dalle classi politiche che la interpretano o aspirano a farlo – è quella di dimostrare che la democrazia è ben più complessa delle reazioni istantanee che oggi ne modellano la fisionomia.

(Analisi pubblicata su Formiche 206)

Vi spiego l'enigma del centro politico. L'analisi di Campati

Da diversi anni, alla fatidica domanda se le elezioni si vincono al centro, i politologi hanno risposto che è ancora valido studiare in termini spaziali la politica, ma è necessario adottare una concezione più articolata rispetto alla tripartizione sinistra, centro, destra. Una condizione resa ancor più complessa dalla propensione dei cittadini a cambiare con una certa repentinità la loro scelta di voto. L’analisi di Antonio Campati, ricercatore di Filosofia politica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

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