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Novanta. Suo fratello veleggia verso il secolo. La mente c’è tutta, il fisico un po’ meno: anche se col girello ci si aiuta. Joseph Aloisius Ratzinger da Marktl am Inn (16 aprile 1927), che per quasi otto anni tenne il gran manto come Benedetto XVI, continua la sua navigazione di uomo e papa emerito.

È rimasto accanto alla Croce come aveva promesso nel dimettersi l’11 febbraio 2013, con una decisione a sorpresa che è l’unica innovazione dall’8 dicembre 1965, giorno della chiusura del Concilio Vaticano II nel quale era stato giovane perito e si era messo in luce come enfant terrible della teologia progressista (il suo ex amico Hans Kung, che verso di lui a Tubinga, da professore, attuò uno sfotticchiamento ingeneroso, gliel’ha rimproverato spesso: lui ha risposto che erano stati gli altri a cambiare).

Dimettendosi, facendo diventare realtà quello che nei manuali di diritto canonico era argomento condito via con una pagina al massimo, ha trasformato la figura papale. L’ha umanizzata e, per certi versi, desacralizzata permettendo il “ciclone” Francesco. Il papato di Jorge Mario Bergoglio dovrà sempre confrontarsi col predecessore. Ma non è la classica sfida Coppi-Bartali (che noia). Ratzinger ha creduto in un’ermeneutica della continuità, nell’idea di una Chiesa in fondo sempre uguale a se stessa, che, alla fine, il suo stesso gesto ha paradossalmente smentito e confermato (del resto i papi si dimettevano anche nel passato, un non sum dignus, non sono degno detto sulla tomba di Pietro, e via per un romitaggio).

Troppo umano per una figura dall’alone sacro quale quella papale. E che per questo rischia di creare un piano inclinato nel quale, rotto il tabù delle dimissioni, domani si potranno vedere più pontefici sull’ottantina (come lui, eletto a 78 nell’idea di un papato di transizione) restare in carica qualche anno e poi ritirarsi a vita privata mentre il governo della Barca di Pietro chissà. Certo, sarà un po’ come nelle diocesi in cui i vescovi si ritirano a 75 anni e da emeriti non contano più nulla. Ma si può dire lo stesso per Roma, cuore del cattolicesimo? E se un emerito si dicesse in disaccordo col successore, che cos’accadrebbe?

Eppure. Eppure questo professore diventato pastore che sognava di ritirarsi in Germania tra i suoi gatti e l’amato Mozart, eletto a sorpresa con tanto di maglia della salute indosso (e che essendo freddoloso ha rispolverato il camauro, cappellone papale usato l’ultima volta da Giovanni XXIII e prim’ancora dai pontefici rinascimentali), nella sua non presenza di questi anni ha saputo rappresentare un memento per il rutilante successore ed è rimasto con dignità accanto alla Croce di errori altrui che gli hanno buttato addosso.

Fuori dai giochi di Curia, di essere l’anti-Bergoglio non gliene importa nulla. Viaggia troppo al di sopra di certe cose per pensarci, malgrado abbia pagato le scelte poco incisive di Karol Wojtyla in tema di preti pedofili e sia caduto in una strumentalizzazione vergognosa del suo discorso sull’Islam a Ratisbona. Forse, in questi anni di jihadismo e Isis, avrebbe mostrato meno gesuitismo rispetto a Francesco e più coraggio: ma la cattiva fama cucitagli addosso (il Grande Inquisitore, il “cattivo2 dell’era wojtyliana e il preludio stinto del bergoglismo, cose non vere) l’avrebbe fatto restar solo.

(Articolo pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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