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Forse i meno giovani hanno visto o hanno sentito parlare del film Mi manda Picone. Girato nel 1982 da Nanni Loy, uno dei maestri della commedia all’italiana, racconta la frenetica ma vana ricerca di un operaio delle acciaierie di Bagnoli, scomparso in ambulanza dopo essersi dato fuoco davanti al consiglio comunale. Lo spettatore scopre lentamente, attraverso un viaggio tra i misteri di una Napoli che è la traparente metafora dei nostri vizi nazionali, che quell’operaio faceva mille mestieri diversi e aveva molte vite differenti. In altre parole, la sua identità sociale non era chiaramente definita, ma era ambigua e sfuggente, quasi inafferrabile.

Ricordo che Bruno Trentin, cinefilo incallito oltre che mio maestro sindacale, rimase colpito dalla sensibilità artistica con cui Loy aveva colto la mutata percezione del lavoro di fabbrica, ormai vissuto come un ripiego e non più come motivo di orgoglio. Dopo un decennio di lotte straordinarie che ne avevano celebrato la centralità, all’inizio degli anni Ottanta la classe operaia sembrava   sulla via di uno storico arretramento. Come già era era stato intuito dai vignettisti di Cipputi, la tuta blu sfidata dalla modernità, e di Gasparazzo, il proletario disincantato e scansafatiche.

È allora che comincia a fiorire una vasta letteratura sul declino irreversibile del lavoro stesso nella società industriale. L’aveva pronosticato lo studioso marxista Harry Braverman, esaminando gli effetti della meccanizzazione di massa negli Stati Uniti (Labour and Monopoly Capital, 1974). Nel 1980 sia Ralph Dahrendorf che André Gorz (in Adieu au proletariat), davanti alla disoccupazione in salita e agli orari in discesa, decretano addirittura la sparizione della società dei salariati. Tornano in auge le riflessioni di Hanna Arendt sull’homo laborans (che agisce nella sfera della necessità), sull’homo faber (che agisce nella sfera della produzione), sull’homo politicus (che agisce nella sfera della libertà) [Vita Activa, 1958]. Non senza una discutibile manipolazione del pensiero della filosofa tedesca (peraltro assai cara a Trentin), dall’esaltazione del “lavoro liberato” all’esaltazione dell’ozio creativo il passo è breve. L’edificio della cittadinanza si separa dalle sue fondamenta lavoriste.

L’analisi dei cambiamenti del lavoro non solo così non viene affrontata, ma viene aggirata con trucchi linguistici. Poiché non esiste alcuna possibilità di opporsi alla frantumazione del lavoro subordinato che si consuma nel passaggio dal fordismo al postfordismo, l’unica risposta plausibile diventa la creazione di una nuova cittadinanza basata sui principi del reddito garantito e dell’economia solidale. La fine del lavoro, insomma, partorisce miracolosamente una nuova cittadinanza, che trova in se stessa le sue radici e la sua giustificazione. Non per caso uno dei guru dei pentastellati è quel Jeremy Rifkin che, scorgendo le mani del  demonio nelle tecnologie mangiaposti, ha annunciato l’avvento dell’era post-mercato come una sorta di Eden delle attività gratificanti (La fine del lavoro, 1995), ribattezzato dal sociologo Ulrich Beck come etica dell’impegno civile (Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, 2000).

Ricordo quello che mi diceva Trentin: chiunque non sia un acchiappanuvole, non dovrebbe gingillarsi con le fantasticherie del non lavoro (per giunta finanziato dall’erario). Fantasticherie che considerava come il segno più vistoso di una vera e propria regressione culturale delle forze riformatrici. Formatosi negli ambienti del socialismo liberale, l’ultimo grande leader della Cgil non ha mai nascosto l’importanza che per lui aveva avuto l’incontro con il personalismo cristiano di Emmanuel Mounier, che risale agli Sessanta del secolo scorso. E cioè con l’idea secondo cui, essendo indivisibile l’umanità del lavoratore, devono essere indivisibili anche i diritti fondamentali attraverso cui tale umanità si manifesta. Se diamo un’occhiata al tempo presente, il problema non è soltanto l’esistenza di un movimento politico che ha fatto del reddito garantito (a cui ora si è aggiunto il reddito di “dignità”) la sua bandiera. Il problema è che pure a sinistra ci sono intellettuali e partitini che subiscono il fascino di questa scorciatoia in nome di una più giusta redistribuzione del reddito.

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