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Quel “mai” gridato tre volte a Matteo Renzi dal capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta, generosamente intervistato dal Corriere TV, potrebbe paradossalmente aiutare il segretario uscente e ormai rientrante del Pd nei gazebo di fine mese. Dove l’ex presidente del Consiglio, forte del 68,2 per cento raccolto nei circoli fra gli iscritti al partito, tornerà a vedersela col ministro della Giustizia Andrea Orlando, fermatosi al 25 per cento.

Dell’altro concorrente, il governatore pugliese Michele Emiliano, riuscito faticosamente a rimanere in gara superando lo sbarramento del 5 per cento, non sarà forse il caso di occuparsi più di tanto perché ormai fa più colore che notizia. Le primarie congressuali, peraltro, gli sono a questo punto servite più che a contendere davvero la segreteria del partito a Renzi, a fare rinviare all’8 maggio il risultato – si spera – del tardivo procedimento giudiziario aperto contro di lui nel Consiglio Superiore della Magistratura dopo più di 13 anni di aspettativa. Durante i quali egli ha trovato la voglia e il tempo non solo di svolgere legittimamente i mandati elettorali di sindaco prima e di governatore poi, ma anche di iscriversi al partito, nonostante gli fosse vietato da una disposizione legislativa confermata dalla Corte Costituzionale, di diventarne segretario locale e di candidarsi a segretario nazionale.

Siamo davanti ad una somma di cose e di circostanze che in un Paese meno anomalo dell’Italia avrebbe già prodotto la rinuncia di Emiliano o alla politica o alla toga, con i relativi scatti di anzianità e la maturazione della pensione. Ma l’Italia, appunto, annovera fra le sue tante anomalie anche, o soprattutto, quella di non sapersi dare una disciplina certa dei rapporti fra magistratura e politica. O di darsela sulla carta ma di non farla rispettare, visto che Emiliano non è il solo caso di un magistrato a lungo in aspettativa ed anche iscritto ad un partito. Nei suoi stessi panni di trova, fra gli altri, anche se con stile, per carità, molto diverso dal governatore pugliese, la ministra dei rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro.

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Quei tre “mai” gridati da Brunetta ad un accordo di governo fra il Pd di Renzi e la Forza Italia di Silvio Berlusconi, di cui lo stesso Brunetta è capogruppo alla Camera, sono un soccorso all’ex sindaco di Firenze perché l’accusa che gli rivolgono gli avversari, interni o esterni che siano, tutti comunque in grado di andare a votare contro di lui nei gazebo a fine aprile, è di volersi accordare appunto con Berlusconi dopo le prossime elezioni, ordinarie o anticipate che siano.

Altro che – dicono ancora gli avversari di Renzi – la ricostruzione di un centrosinistra “largo”, come auspica l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Che magari sarebbe anche disposto a tentarne la formazione prima candidandosi come indipendente alle Camere nelle liste del Pd, secondo voci spesso smentite ma rimaste ugualmente in circolazione, e poi sperando che a Renzi passi la voglia, che oggi invece sembra ancora forte, di tornare a Palazzo Chigi perché -ha detto in qualche circolo nelle settimane scorse- “così si fa in Europa”. Dove cioè il leader del maggiore partito è anche il leader del governo, per quanto di coalizione, composto cioè anche da altre formazioni politiche.

Ma in Italia – altra anomalia – sia la sinistra sia la destra, o centrosinistra e centrodestra, se preferite, sono riusciti nel miracolo di vanificare in quasi venticinque anni di esperienza il sistema elettorale maggioritario, su cui si basa in genere la doppia leadership di governo e di partito. Non a caso è ormai scontato, di fronte alla incapacità o indisponibilità parlamentare d’intervenire sulle due leggi confezionate nella sartoria della Corte Costituzionale per i rinnovi del Senato e della Camera, che alle prossime elezioni andremo a votare col vecchio e collaudatissimo sistema proporzionale della prima Repubblica. Quando all’allora partito di maggioranza relativa, che era la Democrazia Cristiana, capitò ad un certo punto di partecipare a governi guidati da esponenti di altri partiti. Ciò avvenne, in particolare, nel 1981 col governo presieduto dal leader del Partito Repubblicano Giovanni Spadolini, che interruppe la serie di ben 37 esecutivi guidati da uomini della Dc, e nel 1983 col governo presieduto da Bettino Craxi.

Forse Renzi sarà tentato di liquidare scenari del genere come “la palude” da lui già denunciata con sconforto, avvertendone appunto il ritorno, dopo la clamorosa sconfitta referendaria del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale da lui concepita come il consolidamento del sistema maggioritario. Ma i meno giovani o più anziani avranno modo di raccontargli e di spiegargli che, diversamente dall’impressione ricavabile dai tanti, diciamo pure troppi governi che si avvicendavano, spesso sotto la guida della stessa persona, quella della cosiddetta prima Repubblica non fu sola o tutta palude. Fu anche la Repubblica della ricostruzione, della scelta occidentale, del miracolo economico, dell’ammissione al G7 e, in tema di diritti civili, cui tanto è sensibile il segretario piddino uscente e rientrante, del divorzio e dell’aborto. Sì, anche dell’aborto, troppo a lungo praticato ipocritamente e pericolosamente in modo clandestino.

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Se davvero Renzi dopo le elezioni non vorrà o non potrà percorrere la strada delle cosiddette larghe intese di governo, visti quei tre “mai” gridati da Brunetta, ma sempre al netto dei contrordini di Berlusconi, per la realizzazione di coalizioni di centrosinistra,  potrebbe risultargli utile giocare non sulla sola carta già adombrata di Pisapia, ma anche  su quella, tutta interna di partito, di Andrea Orlando. Nei cui riguardi non a caso, proprio commentando i risultati delle votazioni svoltesi nei circoli e della campagna condotta dal guardasigilli, per anni suo sostenitore alla segreteria del partito, Renzi ha detto che “si può collaborare”.

In effetti, Orlando non è della pasta, diciamo così, di Massimo D’Alema e di Pier Luigi Bersani, letteralmente ossessionati dal nome e dall’immagine di Renzi, come nel Pci Enrico Berlinguer da Craxi.

Mi è capitato recentemente di paragonare, fatte naturalmente le debite proporzioni, Orlando ad Aldo Moro, che esordì al governo nel 1957 al Ministero della Giustizia. E poi divenne segretario della Dc, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, sino a sfiorare il Quirinale. Mi sono sentito dare del matto, ma da chi ha evidentemente poca dimestichezza con la politica, pur credendo di intendersene. Nel 1957 non c’era un democristiano, dico uno, che scommettesse sul Moro degli anni successivi. A cominciare naturalmente da lui.

Matteo Renzi, il tonitruante Renato Brunetta e il sornione Andrea Orlando

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