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Come allievo di Mario Verdone (1917-2009), alla Sapienza di Roma, alla fine degli anni Settanta, ho potuto godere di originali lezioni di cinema. Poi, successivamente, come assistente di cattedra, per le lezioni e gli esami, continuavo ad affinare, dalla sua didattica, l’arte della comparazione. Inoltre apprezzavo il suo modo, piano ed educato, di condurre un esame trattando con rispetto e gentilezza lo studente, per me autentica palestra pedagogica, fondamentale nella mia esperienza di docente, prima all’università e poi a scuola.

Contemporaneamente iniziai a frequentare “casa Verdone”, e poi, anche per i successivi trenta anni. Mi recavo lì per curare, con lui, alcune sue opere letterarie o di cinema, che man mano mi affidava. “Casa Verdone” era un’autentica galleria d’arte: alle pareti: Jurij P. Annenkov, Primo Conti, Toti Scialoja, Piero Sadun, Jiří Trnka, le cravatte futuriste di Luce Marinetti, ecc. Infine, ebbi l’onore, dopo che Mario ci lasciò, su invito di Luca Verdone e Carlo Verdone, di dare una mano nella catalogazione delle carte e dei documenti del grande studioso, quando fu necessario il trasloco della immensa biblioteca della bella casa sita in Lungotevere Vallati 2 (cui Carlo Verdone dedicherà La casa sopra i portici, Bompiani, 2012).   

Mario Verdone, agli inizi degli anni Duemila era, insieme a Manoel De Oliveira (1908-2015) e Otakar Vávra (1911-2011, di entrambi ebbi la fortuna di intervistarli), uno dei pochi uomini di cinema che aveva “conosciuto il Novecento”, e lo poteva raccontare in prima persona. In centinaia di convegni, saggi, articoli. E, naturalmente, in affascinanti conversazioni private.

Tutti questi pezzi di vita, mi sono tornati in mente prima della proiezione del toccante, delicato e profondo film di Luca Verdone, presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma, Mario Verdone: il critico viaggiatore (2024).

Mario Verdone, scrittore, storico del cinema e dello spettacolo, poeta, drammaturgo, uno dei massimi storici del Futurismo, critico d’arte, regista di documentari, è stato il primo cattedratico di Storia del cinema in Italia (chiamato alla Sapienza dal noto dantista Giorgio Petrocchi, – dopo aver superato un esame rigoroso -, decise di nominare l’insegnamento “Storia e critica del film”: come a dire che tutto comincia e gira intorno ad un testo: il “film”). Uno studioso di cinema apprezzato sia all’estero che in Italia: da autori quali, Luigi Chiarini, Manoel De Oliveira, Franco Zeffirelli, Federico Fellini, Roberto Rossellini, Carlo Lizzani, Akira Kurosawa, Francesco Maselli, Liliana Cavani, Jiří Trnka, ecc.

Ma Mario Verdone è stato tanto altro: ad esempio, collaboratore del Corriere della Sera su invito di Dino Buzzati (Quando Buzzati assunse Mario Verdone), e, quando girava per i cinque continenti, inviava pezzi originali sul mondo dell’arte e dello spettacolo. Per tornare in Italia, sin da giovane liceale, diviene esperto della storia e della cultura senesi e, ovviamente, del Palio, «divorava libri su libri», (R. Barzanti).

Tutto ciò ci viene raccontato, con calma e serenità, da Luca Verdone. Eccoci, dunque, a Siena negli anni Quaranta quando il ventiduenne Mario, non appena si laurea con Norberto Bobbio, con una tesi su Giuseppe Mazzini (una sfida in periodo fascista), non solo diventa uno degli assistenti di Bobbio, ma esordisce anche nella letteratura con una raccolta di prose poetiche, Città dell’uomo. Un’opera influenzata dalla prosa d’arte anni Trenta, tra Emilio Cecchi e Alessandro Bonsanti, con innegabili rimandi “espressionisti” alla narrativa del suo amato, Federigo Tozzi. Un esordio letterario dirompente da far dire a un recensore come si fosse di fronte a una “perfettissima prosa”: l’articolista era Alberto Savinio.

Il film procede montando in alternato preziose foto dell’archivio Mario Verdone (vediamo il nostro con René Clair, Luis Buñuel, Charlie Chaplin, Federico Fellini) con inediti ricordi dei figli Carlo Verdone, lo stesso Luca, Silvia Verdone, e il marito di Silvia, Christian De Sica («Mio padre deve a Mario Verdone il successo internazionale di Ladri di bicilette, 1948; grazie alla proiezione organizzata a Parigi, davanti a intellettuali quali Jean Cocteau, René Clair; poi il film arrivò in America e vince l’Oscar»).

Scorrono, in un montaggio ben levigato tra materiali di archivio e dichiarazioni contemporanee, preziose testimonianze e pareri di letterati, artisti e studiosi: Elio Pecora («Molti nomi che erano altisonanti si sono persi, Mario Verdone rimane»), Franco Ferrarotti («Aveva la capacità straordinaria di porre in relazione diversi saperi, una sicurezza di sé legata alle radici (…) un accademico che guardava avanti (…)»); Stefano Moscadelli («Dal diritto alla letteratura, al teatro senese, era molto attivo sin da ragazzo»). E poi, ancora, Francesca Barbi Marinetti, Roberto Barzanti, Fernando Birri, Liana Orfei, Federico Pontiggia, Enrico Bitotto, ed altri intellettuali.

Un ricordo singolare viene dal suo ex allievo, il regista Daniele Luchetti: “Le sue lezioni sulle avanguardie erano originali; ci spiegava come già allora certo cinema volesse andare oltre la modernità di quel tempo comparando le diverse arti”.

Lo stile declinato da Luca Verdone in questo racconto poetico-biografico (felice la scelta del pianoforte di Alessio Vlad), a ben pensarci, rimanda (involontariamente?) allo specifico narrativo della prosa, della poesia e del cinema documentario presente nelle opere di Mario Verdone. Per Verdone padre raccontare una storia (sia nei romanzi, come nei racconti, nelle poesie, nei testi teatrali o nel cinema documentario) significava creare una trama chiara, con una sottile dose di humour e, sovente, con un finale non prevedibile (vedi il racconto, L’atleta del Buruana, in Un giorno senza gloria. Racconti e memorie, Andromeda Edizioni, 2000).

Il procedere narrativo di Mario Verdone, incluso quello sapientemente adottato nella saggistica, è cristallino e comprensibile (guadagnato alla scuola di Norberto Bobbio), non predicibile: teso a esprimere una originalità associativa di concetti (saggistica) e “visioni” (opere creative).

Sul piano strettamente cinematografico, torniamo al film, come non notare la somiglianza tra queste delicate, quasi lente spatolate panoramiche sui tetti di Siena e le panoramiche sui tetti di Roma o sul Pincio, nel bel documentario di Mario Verdone, Anni lieti (1955)?

Sull’arte di “spiegare” un film sapendo individuare i rimandi e gli agganci con le altre arti (“Il cinema è la logica conclusione di tutte le arti”, Vladimir Majakovski”: il prof, ce lo ripeteva a lezione, negli anni Settanta, quando nessuno insegnava a leggere un film nelle università italiane), il film di Luca Verdone raggiunge mirabilmente il suo obiettivo formativo.

E, sull’arte didattica di Mario Verdone professore, ci conforta anche la seguente testimonianza pubblica: «Come studente ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia, a Roma, disertavo tutte le lezioni di tecnica cinematografica e produzione. Non mi interessavano. Ero a Roma per scoprire la città e l’Europa. Già sapevo che volevo diventare scrittore e non regista. Le uniche lezioni che seguivo con vivo interesse erano quelle di cinema di Mario Verdone. Sapeva analizzare un film da ogni punto di vista con decine di riferimenti all’universo dell’arte in generale. Un maestro» (Gabriel García Márquez).

  

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