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La disuguaglianza dei sentieri di crescita dei Paesi membri, il diverso peso delle regioni meno sviluppate e del debito pubblico sembrano essere le cause di un modello di sviluppo dell’Europa, che ha accresciuto gli svantaggi dei Paesi più deboli e ne ha minato i motivi più profondi di lealtà e di adesione all’unione. Per paesi come l’Italia, un tempo in prima fila tra i sognatori di un’Europa unita, il sogno europeo coincideva con la speranza di diventare finalmente un paese normale, con una economia, una politica e una società civile componenti a pieno titolo della nuova realtà transnazionale. Ma non è andata così. L’adesione all’Ue ci ha probabilmente salvato da un destino peggiore, ma il sogno europeo sembra anche essersi trasformato in un incubo di bassa crescita e disoccupazione, sotto un insieme di regole che intrappolano l’economia e alimentano risentimenti e disegni di uscita.

L’Europa a più velocità non sembra certo la panacea capace di risolvere queste contraddizioni, anche perché il problema è che il funzionamento dell’Europa oggi appare proprio minato dal fatto che le velocità dei diversi paesi sono diverse e diverse sembrano anche le loro direzioni. Inoltre, il termine velocità applicato all’Europa è fortemente ambiguo: da una parte esso sembra promettere flessibilità nelle regole, ma dall’altra minaccia di accentuare le differenze, riportandole più direttamente a una gerarchia di performance e di potere, che è già un’abbondante fonte di risentimento nazionale e anti-europeo.

Per capire meglio che cosa può significare il termine “più velocità”, è utile ricordare che l’Europa si configura come un club di paesi che aderiscono volontariamente a una serie di regole per consumare e produrre dei beni comuni. Questi beni comuni sono tali che nessun paese potrebbe pensare di finanziare individualmente, ma, ci insegna la teoria economica (Sandler and Tschirhart, 1980) , possono essere oggetto di azione collettiva da parte di insiemi diversi di membri, ossia di club a geometria variabile. Le ragioni per queste possibili configurazioni risiedono nel fatto che i “club goods” sono beni pubblici imperfetti. Essi possono essere condivisi, ma sono anche escludibili (nel caso dell’Europa alcuni paesi possono essere esclusi dai benefici e dai costi dell’Unione). Inoltre i benefici della condivisione possono essere ridotti dalla presenza di un numero eccessivo di membri, o dalla presenza di membri meno “desiderabili”. Questi sono i cosiddetti “free riders”, ossia membri che cercano di godere dei benefici del club senza pagare la loro quota di costi, o anche di sottrarsi alle regole comuni che assicurano la produzione di alcuni beni del club, quali la fiducia e la lealtà. Infine, se i “club goods” prodotti sono divisibili, una volta che il numero dei component del club ha raggiunto la sua dimensione ottimale, gli esclusi possono formare un nuovo club per produrre gli stessi beni.

L’Europa a più velocità è quindi implicitamente una ipotesi di clonazione del club originario (che si potrebbe chiamare il “club di Roma”, anche se l’Italia non ne facesse più parte) in tanti club diversi, dipendenti dalla domanda e dalla divisibilità dei beni comuni prodotti. Tutti questi club farebbero parte di un “superclub” corrispondente al mercato comune, ma, pur producendo gli stessi beni (integrazione economica e finanziaria, gestione comune delle frontiere e altri beni pubblici ecc.), ognuno potrebbe avere regole diverse, dipendenti dai paesi aderenti, e dalle politiche comuni e dai disegni istituzionali perseguiti. I processi di convergenza potrebbero essere più agevoli all’interno di ciascun club, presumibilmente più omogeneo dell’insieme di tutti i Paesi, e questo potrebbe generare una più ampia convergenza tra i club. Le tensioni dovute all’ineguaglianza dei tassi di cambio dovrebbero essere minori perché ciascun club si avvicinerebbe di più a un’area valutaria ottimale. Infine le sanzioni attuali per il mancato rispetto delle regole verrebbero convertite in incentivi che premierebbero i club e i paesi virtuosi consentendo loro di scalare la gerarchia delle prestazioni sia all’interno di ciascun club, sia tra club più o meno performanti. Il mercato comune funzionerebbe come un grande campionato a squadre, in cui i club vincenti attirerebbero i giocatori migliori e il meccanismo di competizione migliorerebbe le prestazioni di tutti.

Sembra un quadro idilliaco, e non è detto che sia irrealistico. L’obiezione maggiore è data dalla constatazione che l’Europa è già formata da una serie di club formali e informali. L’Euro sembra certamente il club di punta, e appare essere una delle fonti di tensione maggiore, ma altri club, quali quello dei paesi del Nord, testimoniano anch’essi la esistenza pratica delle diverse velocità. Questa pratica potrebbe trovare una realizzazione estrema anche nella estensione al Regno Unito dei privilegi del mercato unico, nonostante la Brexit. D’altra parte l’Euro può essere interpretato come la prima fase della organizzazione di una pluralità di club europei, che ha fatto emergere in maniera chiara e convincente l’esigenza di strutturare l’unione secondo un modello di gran lunga più flessibile di una irrealistica federazione di Stati così diversi tra loro per storia, economia e cultura.

Ci sono, però, altre interpretazioni di “Europa a più velocità”. Invece che un insieme di club, l’Europa potrebbe configurarsi come una forma di “federalismo funzionale “ in cui i protagonisti di appartenenze diverse non sono gli stati nazionali, ma le diverse regioni. Per esempio, dal punto di vista ordinamentale, come argomentano vari studi fin dagli anni 90, l’Europa potrebbe evolversi in un un regime in cui gli individui organizzano se stessi secondo giurisdizioni che si sovrappongono senza una esplicita gerarchia. In tale modello, ciascuna giurisdizione sarebbe responsabile per la fornitura di una specifica classe di beni pubblici e regioni appartenenti a Stati diversi potrebbero formare accordi cooperativi senza passare attraverso il livello giurisdizionale superiore. Questi accordi avrebbero un’appartenenza variabile, a seconda della portata della politica in esame, e ogni singola unità potrebbe sottoscrivere trattati con diverse altre unità, in un sistema fortemente decentralizzato di alleanze intrecciate.

Questa interpretazione dell’Europa delle Regioni non sembra compatibile con la tendenza al ritorno alle forme più rigide di sovranità nazionale preconizzate dagli ultimi sviluppi politici all’interno e all’esterno del nostro continente. Tuttavia, tra le molte velocità ipotizzabili, un ruolo per le regioni dovrebbe essere coltivato, perché più che gli Stati sono le regioni che appaiono essere all’origine delle più forti disuguaglianze europee, e una geometria variabile che non tenesse conto della loro estrema variabilità probabilmente non riuscirebbe a risolvere i problemi attuali se non riproponendo l’eterogeneità attuale in chiave diversa e forse aggravata.

In generale, e per concludere su questo argomento, dobbiamo notare che la teoria economica ci fornisce un risultato dirimente che è applicabile all’Europa, perché prova che una pluralità di club per differenti tipi di membri (individui, stati o regioni) è preferibile a un unico club se si verificano le seguenti condizioni: (a) esiste una dimensione ottimale del club per ciascun tipo di individui, (b) esiste un numero sufficientemente elevato di ogni tipo di membri potenziali in modo da consentire la costruzione di club di dimensioni ottimali per ogni tipo. Queste condizioni dipendono essenzialmente dalla numerosità e dalla diversità dei membri potenziali e sembrano indicare che mentre per gli Stati le velocità europee non potrebbero essere più di due (l’Euro e il resto, come ora, o forse tre (Euro 1 , Euro 2 e il resto) , con dubbi risultati in termini di efficienza complessiva, speranze migliori ci sarebbero per una pluralità di club regionali.

È fattibile un'Europa a più velocità?

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