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Siamo sempre lì, a quanto diceva Ennio Flaiano: ‘’la situazione è grave, ma non seria’’. Proprio così. Avevamo appena smesso di ridere alla vista del Governo del conte Paolo Gentiloni Silveri, che sono intervenuti altri due eventi ad ingombrare il ‘’letto di Procuste’’ in cui il Paese è confinato. Una bella mattina ci siamo svegliati e ci siamo accorti che – zitta zitta lemme lemme – la Cgil aveva raccolto 3,3 milioni di firme a sostegno di un sarchiapone che, col suo dire démodé, aveva definito la Carta dei diritti, all’interno della quale stavano anche tre requisiti referendari abrogativi in materia di voucher, responsabilità solidale in caso di appalti e di licenziamenti individuali. Non solo. Lo spettro del referendum era ad un passo dal materializzarsi, dal momento che mancava unicamente il giudizio di ammissibilità della Consulta già calendarizzato per l’11 gennaio. Tutti, allora, hanno drizzato le orecchie. Guai a farsi scappare un’occasione siffatta che riporterebbe in auge una bella battaglia sull’articolo 18 dello Statuto: come se ritornassero, insieme, la Resistenza, il ‘’sessantotto’’, le ‘’radiose giornate di marzo’’ del 2002 con Sergio Cofferati – capelli al vento – ad arringare le folle al Circo Massimo. Persino quelli che volevano votare il più presto possibile, addirittura con leggi elettorali raffazzonate, veri e propri Frankenstein manipolati dalla Consulta, oggi si stanno schierando minacciosamente per spostare in avanti lo scioglimento delle Camere, dal momento che le elezioni anticipate consentirebbero di rinviare di un anno la consultazione referendaria. E il povero Giuliano Poletti che, in fondo, aveva raccontato come sarebbe andata a finire, è stato subissato di critiche.

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Dopo mesi in cui decine di costituzionalisti si sono dati da fare in tutti i modi per difendere gli sgorbi della legge Boschi, ora stanno in un silenzio assordante sui quesiti referendari della Cgil. Eppure, quello in materia di licenziamento è chiaramente inammissibile perché in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale per almeno due ragioni. La prima. La Corte ha posto tre requisiti come indispensabili per l’ammissibilità dei quesiti: la loro chiarezza, l’univocità e l’omogeneità. A proposito del licenziamento, invece, manca il requisito della univocità perché si tratta di tre quesiti distinti; in particolare il terzo introduce ex novo nell’ordinamento una norma mai esistita in precedenza (un nuovo articolo 18). Un elettore potrebbe essere d’accordo su uno o due di essi, ma non sul terzo. Con un quesito unico che contiene una pluralità di domande si coarta la volontà dell’elettore. La seconda. La Corte non ammette tecniche di ritaglio dei quesiti che utilizzino il testo di una legge come serbatoio di parole a cui attingere per costruire nuove disposizioni (addirittura lasciando sopravvivere solo alcune parole contenute in periodi diversi, separati dal punto, come per il comma 7 dell’art. 18). Il quesito deve riguardare l’abrogazione di norme la cui soppressione può far espandere la normativa residua, ma non può creare ex novo nuove disposizioni con tale tecnica di ‘’taglia e cuci’’. In questo modo il referendum abrogativo si trasformerebbe, di fatto, in un referendum propositivo surrettizio non previsto dal nostro ordinamento (lo prevedeva la riforma costituzionale respinta dal referendum del 4 dicembre).

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L’altra vicenda singolare è quella che riguarda Mediaset, improvvisamente divenuta la nuova linea del Piave del patriottismo italiota. Mediaset è stata vilipesa, odiata, più volta minacciata (ricordate il referendum, farlocco e disonesto, all’insegna del ‘’non si interrompe un’emozione’’?) nei suoi equilibri produttivi ed aziendali (quando volevano le dismissioni forzate di un canale). Eretta ad emblema del conflitto di interessi, ha vissuto con il terrore che le venissero levate le frequenze e, in fondo, è sempre stata un punto di debolezza più che di forza di Silvio Berlusconi, che, alla fin dei conti, finiva sempre per dover scegliere la strada meno pericolosa per le sue aziende, anche se la più accomodante nei confronti dei suoi avversari politici. Da che cosa deriva questo improvviso e repentino cambio d’umore nei confronti di Mediaset, a fronte di una banale operazione di mercato come quella di Vivendi ? Semplice. L’odio plebeo verso lo ‘’straniero’’, la globalizzazione e gli effetti del virus ‘’sovranista’’ sono più potenti dell’antiberlusconismo storico.

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Se io fossi Silvio Berlusconi mi travestirei da Ponzio Pilato e a schermi unificati chiederei agli italiani: ‘’Volete Mediaset o il Milan?’’. E aspetterei la loro risposta.

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