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Le motivazioni della Consulta sull’Italicum hanno tolto ogni alibi alla politica. Ora i partiti dovranno mettere mano alla legge elettorale per realizzare un nuovo sistema di voto, come ha suggerito l’Alta Corte e ancora prima aveva auspicato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Ora il re è nudo”, dice con un’efficace immagine alla Andersen Gaetano Quagliariello. Il fatto, però, è che ora tutto potrebbe cambiare. Gli spifferi in arrivo dal Pd, infatti, danno per altamente probabile l’ipotesi che Renzi lunedì alla direzione del partito rassegni le dimissioni da segretario, aprendo così la stagione congressuale. A quel punto la finestra del voto a giugno si chiuderebbe definitivamente, facendo slittare anche i tempi sulla legge elettorale. In questo caso la nuova data che l’ex premier sta facendo circolare nell’inner circle dei fedelissimi è il 24 settembre. Data anomala, oltretutto alla vigilia della sessione di bilancio, ma con Renzi tutto può succedere. “Non ci sto a fare da bersaglio per mesi”, ha detto il segretario ai suoi.

Ma perché Renzi ha cambiato idea sulle urne a giugno? “Il segretario ha capito che i tempi per un accordo sulla legge elettorale sono troppo stretti, che in tanti, a partire dalla minoranza dem, avrebbero messo il bastone tra le ruote. Così si è messo l’animo in pace: facciamo prima il congresso e poi andiamo a votare”, racconta una fonte bene informata del Pd. Un congresso lampo, però, da sbrigare come una scocciatura non evitabile. Uno strumento, però, utile per mettere a tacere una volta per tutte Bersani, Speranza & C. Questo week end sarà decisivo per le ultime riflessioni, poi lunedì i giochi saranno fatti.

In caso cambiasse idea, il Pd si prepara a un piano B, ovvero a una manutenzione leggera della legge elettorale secondo le indicazioni della Consulta: armonizzare le soglie tra Camera e Senato, premio di maggioranza al 40% anche a Palazzo Madama, premio alla coalizione e non alla lista. E poi urne a giugno. E proprio sul premio alla coalizione, ieri una sponda l’ha offerta di nuovo Giuliano Pisapia, riaffermando l’ipotesi di un’alleanza tra il Pd e il suo “campo progressista” alle prossime elezioni. Schema che renderebbe più appetibile per Renzi una sterzata dal premio alla lista (da sempre il suo preferito) a quello alla coalizione.

Al netto della direzione, intanto, martedì è prevista la partenza dell’iter in commissione Affari Costituzionali alla Camera, dove sono ben 18 le proposte di legge presentate: altre ne arriveranno e altre scompariranno, trovando una sintesi tra di loro. Al momento restano divergenze politiche sull”impianto da dare alla legge. C’è chi spinge per un sistema proporzionale, come FI, Udc e SI, e chi per uno maggioritario, come Direzione nazionale di Raffaele Fitto. In tal senso nella segreteria del Pd è spuntata l’idea di proporre l’abbassamento della soglia per il premio di maggioranza dal 40 al 37% come la versione originaria dell’Italicum. A farsene portavoce è stato il costituzionalista Stefano Ceccanti, ma è condivisa da molti nella maggioranza del Pd. Poi c’è il Movimento 5 Stelle, dove Beppe Grillo ha intimato agli altri partiti di votare la proposta di legge che traspone il sistema della Camera anche al Senato così da arrivare alle urne a giugno. E l’invito della Corte non a realizzare due sistemi omogenei tra i due rami del Parlamento, ma a dar vita a un sistema che porti “a maggioranze omogenee in Camera e Senato” lascia aperto lo spazio a diverse opzioni.

Insomma, come in un domino in cui ogni pedina si porta con sé tutte le altre, in questo finale di legislatura tutto si mescola: legge elettorale, resa dei conti nel Pd, alleanze in vista delle prossime elezioni. A Renzi negli ultimi giorni non sono piaciuti gli ammiccamenti tra Dario Franceschini e Andrea Orlando. Così è partita una sua personale conta interna, scandita a suon di lettere firmate dai parlamentari, per sondare chi gli sarà davvero fedele e chi no. Il tutto gestito dal suo nuovo ufficio preso in affitto a Firenze, all’interno di uno storico palazzo di Borgo Pinti. Meno scende a Roma, Renzi, e meglio sta. Tanto sono poi i suoi fedelissimi a inviargli report quotidiani su ciò che accade, e anche quello che non accade, tra il Nazareno e i palazzi della politica.

Che cosa si agita nel Pd fra Matteo Renzi, Dario Franceschini e Andrea Orlando

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