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L’11 marzo 1947, uno dei costituenti più celebri e autorevoli, Benedetto Croce, fece un lungo intervento, non col “nome impopolare di filosofo” ma da letterato, giudicando il Progetto di Costituzione “opera non felicemente riuscita”,  perché “scritta da più persone in concorso; [e] tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere”. A questa “prima cagione della mancanza di coerenza e di armonia” se ne aggiungeva un’altra ben più grave: che “i molti suoi autori […] non vi perseguivano un medesimo fine pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il Governo, non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposizione d’animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua al suo mulino, grazie a compromessi sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti vaghi o contraddittori, [che] abbondano nel disegno di Costituzione”.

Un giudizio assai duro, e per niente in linea con l’apologetica che si sarebbe sviluppata nel corso degli anni, magnificatrice de mirabile compromessoche portò alla Costituzione “più bella del mondo”. Come ha osservato Lorenzo Gaeta in un bellissimo libro da lui curato (Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea Costituente, Ediesse, 2014, pag.403), la drastica posizione di Croce rispecchiava il suo forte dissenso, come laico e liberale, con l’inclusione nella Carta dei Patti lateranensi, con l’impegno a garantire l’indissolubilità del matrimonio, con l’istituzione delle regioni e, infine, con la rigidità del meccanismo di revisione costituzionale. Per questo invocava lo spirito della libertà di pensiero affinché scendesse ad ispirare menti e cuori dei costituenti, ed era bene farlo così come facevano i cardinali in conclave con lo Spirito Santo, cioè pronunciando le stesse parole dell’inno sublime:“Veni creator spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”.

Il suo appello non fu ascoltato, né dai costituenti e tanto meno dallo Spirito Santo. Dopo settant’anni, si può ragionevolmente sostenere che presero una cantonata.

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Ho letto su qualche giornale che nel Pd si possono contare almeno undici correnti (forse sarebbe meglio chiamarle spifferi) renziane e antirenziane, una minoranza antirenziana dialogante (Andrea Orlando), una minoranza antirenziana intransigente (Michele Emiliano) e anche un centro della maggioranza renziana (Dario Franceschini) che è un po’ antirenziano. Ergo, ci devono essere pure una destra e una sinistra della maggioranza renziana che sono un po’ antirenziane. Il principio (aristotelico) di non contraddizione è violato, ma la coincidentia oppositorum del neoplatonico Nicola Cusano è salva. Se le cose stanno così, sarebbe magnifico se il prossimo congresso il Pd segnasse il passaggio dalle categorie della filosofia classica al metodo della filosofia analitica (a partire dall’abolizione del metalinguaggio). Con la riscoperta di un sano pragmatismo alla John Dewey, inoltre, Matteo Renzi potrebbe dare vita a un vero partito liberaldemocratico (auspicabilmente) di massa. Berlusconi ci ha provato, e sappiamo come è andata a finire. Provaci ancora Matteo, può darsi che sia la volta buona.

Matteo Renzi, Renzi, Pd

Quante correnti ha il Pd?

L'11 marzo 1947, uno dei costituenti più celebri e autorevoli, Benedetto Croce, fece un lungo intervento, non col "nome impopolare di filosofo" ma da letterato, giudicando il Progetto di Costituzione "opera non felicemente riuscita",  perché "scritta da più persone in concorso; [e] tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l'arte dello scrivere". A questa "prima cagione…

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