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Ricordarci ogni tanto che siamo italiani, che dovremmo essere una comunità coesa, sensibile a un civismo sorretto da forti valori condivisi, è terapia cui ricorrere con maggior frequenza, specie ai giorni nostri.

Lamentava l’Alfieri : “Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello, cui niegan corpo i membri troppi e sparti”. Il “corpo” l’abbiamo recuperato da tempo: ma la sua anima? Provvida quindi l’iniziativa del ministero della Istruzione e delle prefetture d’Italia che partecipano attivamente, con manifestazioni e iniziative in tutto il Paese, come conferenze, incontri con studenti e le realtà economico-sociali del territorio, concerti, consegna di onorificenze, alla celebrazione del 17 marzo, data della proclamazione in Torino, nell’anno 1861, dell’Unità d’Italia.

Una apposita legge (23 novembre 2012, n.222) ha riconosciuto tale data quale “giornata” dedicata a “Unità nazionale, Costituzione, Inno e Bandiera”, allo scopo di “ricordare e promuovere, nell’ambito di una didattica diffusa, i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e di consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica”.

E bene hanno fatto organi di stampa, come il Resto del Carlino, a dedicare ampio spazio alla sciatteria con cui in certe sedi di pubblici uffici vengono trattati solenni simboli della Repubblica, come appunto la bandiera. Non è questione di retorica bolsa. Basta fare un viaggetto in qualche Paese del nord Europa per constatare quanto rispetto sia riservato alla bandiera nazionale e quale diffusione abbia la sua esposizione anche in giardini di private abitazioni.

Diceva un mio professore alle medie: “Siamo capaci della più trita retorica. E, subito dopo, della più trita anti-retorica”. Mai che ci posizioni su un sano spirito di appartenenza nazionale, ed europeo. E la scuola può molto, ma con docenti adeguatamente motivati e preparati. Con famiglie collaboranti, e non pronte a “dare addosso” al docente se qualcosa per il figlio non va. A proposito di sensibilità per i “simboli” della Repubblica è tempo di rendere il dovuto onore a Michele Novaro, autore del nostro inno nazionale la cui figura è rimasta a lungo in secondo piano per la confusione che sovente si fa attribuendolo a Mameli, eroico autore delle parole, il ben noto “Canto degli Italiani”. Mentre, in verità, per le arie musicali, ci si esprime così: “Va pensiero” di Verdi, la “Cenerentola” di Rossini, sempre con riferimento al compositore e non al librettista. Nel caso dell’inno i due nomi andrebbero almeno appaiati.

Quelle note caratterizzarono tutto il nostro Risorgimento, al punto che nel 1862 Verdi inserì il “Canto degli Italiani”, come simbolo musicale dell’Italia, nell’ “Inno delle Nazioni”, accanto a “La Marsigliese” e a ”God Save the Queen”. E riemersero con forza alla fine della Seconda guerra mondiale quando, a Londra, Arturo Toscanini diresse l’inno delle nazioni.

Ebbene, come è stato scritto, “tutti conosciamo la figura di Mameli, esempio ardente del più puro eroismo risorgimentale … caduto a 22 anni, nel 1848, durante la difesa della Repubblica Romana”.

Al contrario, pochi conoscono la figura di Michele Novaro, patriota, tenore e compositore ligure, che donò le note coinvolgenti ai versi dell’amico Goffredo. “Venne risucchiato in questo equivoco anche l’autorevole e abitualmente documentato Corriere della sera che, intrattenendosi (12.6.2005, p.35) sull’inno nazionale, in un sottotitolo esordiva: “La musica di Mameli…”. Che poi tale superficialità sia recepita in una legge dello Stato è francamente singolare: la richiamata normativa del 2012 dispone che siano “organizzati percorsi didattici sulle vicende che hanno condotto all’Unità nazionale, alla scelta dell’ inno di Mameli e della bandiera nazionale”. Ed inoltre: “È previsto l’insegnamento dell’inno di Mameli e dei suoi fondamenti storici e ideali”.

Non mancherà modo, immagino, alla solerte e attenta ministra Valeria Fedeli, di fornire indicazioni applicative alle istituzioni scolastiche perché “l’insegnamento dell’inno”, voluto dalla legge, ne ripercorra la vera storia, nella sua interezza. Oltre ad avere richiamato la sensibilità del Paese sui suoi valori fondanti, questa legge, comunque, un altro merito ce l’ha. Consacra formalmente la composizione di Novaro-Mameli quale inno nazionale ponendo fine a una uggiosa querelle sulla assenza di un apposito decreto in tal senso.

“Era il 12 ottobre del 1946 quando il primo governo della Repubblica guidato da Alcide De Gasperi – rileva Ferdinando Regis – stabilì che di lì in poi quella che era stata la colonna sonora del Risorgimento avrebbe rappresentato in versi e musica tutta la nazione”. In calce al verbale di seduta di quel Consiglio dei ministri venne annotato: “Il governo proporrà uno schema di decreto col quale si stabilisca che provvisoriamente l’inno di Mameli sarà considerato inno nazionale”. Tale decreto non vide mai la luce. Supplì la forza normativa dei fatti: per decenni all’interno e all’estero l’Italia si è identificata con quest’ inno, patrimonio ormai incontestabile del Paese, come il tricolore.

La vita di Novaro fu quanto mai semplice. Nel 1847 era a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano. Convinto liberale pose il suo talento compositivo al servizio della causa d’indipendenza, musicando molti canti patriottici e organizzando varie raccolte di fondi per finanziare e sostenere le imprese di Giuseppe Garibaldi. Tornato a Genova, fra il 1864 ed il 1865, fondò una Scuola corale popolare, ad accesso gratuito, alla quale dedicò tutto il suo impegno.

Morì povero, il 21 ottobre 1885, tra difficoltà finanziarie e problemi di salute.

Nella foto: Valeria Fedeli, ministro dell’Istruzione con l’ambasciatore Giorgio Girelli alla inaugurazione dell’anno accademico del Conservatorio Rossini

Unità d'Italia. L'inno però è soprattutto di Novaro

Ricordarci ogni tanto che siamo italiani, che dovremmo essere una comunità coesa, sensibile a un civismo sorretto da forti valori condivisi, è terapia cui ricorrere con maggior frequenza, specie ai giorni nostri. Lamentava l’Alfieri : "Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello, cui niegan corpo i membri troppi e sparti". Il "corpo" l’abbiamo recuperato da tempo: ma la sua anima? Provvida quindi…

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