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Almeno 39 persone sono state uccise e altre 69 ferite a Istanbul durante un attacco terroristico avvenuto in una famosa discoteca poi rivendicato da Isis.

L’ATTENTATO

Intorno alle 01:30 della notte di Capodanno, un uomo armato (ma non si escludono complici) ha aperto il fuoco al Reina, nightclub molto frequentato anche da personaggi famosi e turisti che si trova nel quartiere di Ortakoy nel distretto di Besiktas (parte europea della città). Un poliziotto e un buttafuori sono stati uccisi all’ingresso, poi una volta dentro ha sparato verso i clienti del locale, che in quel momento erano circa 600 (l’azione ricorda quella che nel novembre 2015 colpì il Bataclan di Parigi o quella che a giugno avvenne al Pulse di Orlando: entrambe rivendicate dallo Stato islamico). Al momento della stesura di questo pezzo non ci sono ancora rivendicazioni per quello che il governatore di Istanbul ha subito definito un attentato: l’ennesimo, la Turchia chiude il 2016 con 275 persone uccise durante attacchi del genere, dove gli autori sono stati sia i terroristi che il Pkk, o fazioni collegate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan).

LA TREGUA E I RIBELLI “AMICI”

Ankara paga il prezzo di alcune scelte di politica estera, che avrebbero dovuto essere vie per facilitare questioni interne ma che a tutti gli effetti portano il paese verso una fase ancora più delicata: la Turchia ha scelto di concedersi a Russia e Iran, alleati solidi del regime siriano di Bashar el Assad, contro cui il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha usato in passato parole di fuoco, per curare i propri interessi sfruttando la tregua sul conflitto siriano. Ankara ha prima negoziato con i due partner del rais per chiudere una situazione in stallo da anni e ha permesso al governo di riconquistare Aleppo proprio attraverso quelle trattative che ha tenuto con i ribelli. Poi, sfruttando l’ascendente che esercita nei confronti delle opposizioni – per anni finanziate sul campo e politicamente sostenute anche ai tavoli internazionali – ha raggiunto un cessate il fuoco su scala nazionale. Ma sebbene alcune fazioni abbiano scelto di aderire, altre non hanno firmato (tra queste per esempio il forte gruppo islamista Jaysh al Islam, sebbene sia stato incluso dal ministero della Difesa russo nella lista delle opposizioni moderate con cui negozia). La decisione ha generato dei malcontenti già all’interno di questi gruppi: due esempi per tutto. Primo: la scorsa settimana l’uomo che ha ucciso l’ambasciatore russo ad Ankara ha gridato che l’atto era una vendetta per “la Siria e per Aleppo”. Secondo: Aharar al Sham, storico gruppo combattente dalla linea ortodossa salafita, è da giorni impegnato in una discussione interna politico-ideologica tra i chierici della shura per decidere se confluire nella più grande (e forte) Jabhat Fateh al Sham, una formazione che un tempo si faceva chiamare al Nusra e altro non era che l’affiliazione qaedista siriana. Il maquillage politico voluto dal Qatar che ha creato Jfs poco ha fatto in termini di visioni e comportamenti, il gruppo è ancora considerato un’organizzazione terroristica, e giura vendetta contro tutti per quello che è successo ad Aleppo (aspettando il nemico a Idlib). Una situazione così complessa è facile possa essere percepita da qualche elemento fortemente motivato e indottrinato come la molla per l’azione – ed è probabilmente ciò che è successo nel caso dell’assassinio del diplomatico turco.

LO STATO ISLAMICO

Ahrar al Sham è un gruppo che non è troppo distante dalle visioni jihadiste di Jfs – che hanno interesse nazionalistico, comunque – e però è impegnato al fianco della Turchia nell’operazione Scudo dell’Eufrate; va da sé che se dovesse sciogliersi all’interno degli ex qaedisti questa partnership sarebbe più imbarazzante. La Scudo è l’ultima grande scelta di Erdogan che ha creato condizioni ancora peggiori per la Turchia. È una campagna militare iniziata il 24 agosto con il beneplacito russo (e l’assenso siriano e iraniano) che prevede l’incunearsi di una forza mista, soldati e paramilitari ribelli, in una fetta di territorio al confine turco-siriano, lato Siria. L’obiettivo è ripulirlo dalla presenza dello Stato islamico e contemporaneamente bloccare l’avanzata dei curdi delle Ypg. Due gli obiettivi, due i problemi. Primo, attualmente l’offensiva è nella fase più critica, con la battaglia dura che si svolge attorno alla nevralgica città di al Bab, che è una roccaforte siriana del Califfato (è la città dell’ex portavoce Abu Mohammed al Adnani, e uno dei centri di preparazione degli attentatori pronti a colpire all’estero). Il procedere di questi combattimenti, come sempre succede con l’Isis, apre al fronte asimmetrico terroristico. Abu Hassan al Muhajir, il successore di al Adnani (ucciso da quelle parti da un drone americano il 30 agosto), nel suo primo discorso pubblico ha chiesto ai proseliti di colpire la Turchia (e l’Arabia Saudita), considerata, sebbene lo stato voluto da Erdogan abbia visioni islamiche anche rigide, un paese traditore per essere in accordo con l’Occidente e ora con la Russia. E dunque, se si considera il fitto network clandestino negli anni costruito dai baghdadisti all’interno del paese per facilitare il passaggio di uomini e rifornimento, va da sé comprendere come questi secondi (e principali) indiziati possano avere vita facile nel costruire la logistica per un attentato.

I CURDI

Aspetto contemporaneo che si porta dietro la campagna su Al Bab è l’aver messo definitivamente sotto scacco i curdi siriani. Quando Ankara ha scelto di entrare in partnership con Russia e Iran, lo ha fatto perché aveva modificato i propri obiettivi strategici a corto raggio (geografico): se fino a poco più di un anno fa erano il rovesciamento del regime di Assad, negli ultimi diciotto mesi è divemtato il Rojava l’obiettivo da distruggere. Il Rojava è il sognato stato dei curdi siriani, i quali se lo stanno costruendo riconquistando via via fette di territorio che lo Stato islamico aveva preso al nord siriano nel 2013/2014. Queste attività avvengono col sostegno americano, che utilizza le milizie Ypg siriane come partner tattici contro il Califfato: circa 45 mila uomini sono inglobati in un gruppo che prende il nome molto politico di Syrian Democratic Force (Sdf) che Washington sta conducendo verso Raqqa, la più nota delle roccaforti siriane del Califfo. Questa campagna, che apparentemente viene spinta anche in queste settimane, è praticamente rallentata proprio dalla condizionante presenza dei curdi: gli americani non possono permettersi che siano loro a riprendere Raqqa, perché questo apparirebbe come una missione di conquista anziché di liberazione, ma allo stesso tempo ancora le Sdf sono deboli in termini di gruppi arabi inglobati. Washington, inoltre, sa bene che Ankara vedrebbe come un abominio la conquista di Raqqa da parte dei curdi, perché li considera un’emanazione siriana del Pkk, e la missione su Al Bab, e di più gli accordi con Russia e Iran, hanno come obiettivo successivo di aprire verso le Ypg un fronte esplicito in futuro: già nei protocolli di tregua e in quelli della road map successiva, è inserita la clausola che prevede l’aiuto russo alla Turchia per combattere i curdi, e pare che il governo siriano stia già spingendo per riprendere alcune aree della provincia di Aleppo occupate dai curdi. E dunque, ecco creato il terzo degli indiziati per l’attentato al Reina, o per quelli futuri che potrebbero facilmente colpire la Turchia: i curdi, soprattutto tramite l’ala oltranzista del Pkk, il Tak, hanno già condotto attacchi nel paese, coinvolgendo anche elementi dei cugini siriani.

Ecco dove ha colpito Isis nel 2016

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