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Le analogie storiche hanno sempre un che di arbitrario, ma -al di là delle percentuali- il referendum costituzionale ha diviso e turbato l’Italia esattamente come avvenne settant’anni fa, sebbene senza (per fortuna) la dozzina di morti che allora insanguinarono i vicoli di Napoli. È l’episodio più drammatico del tormentato esordio della democrazia repubblicana, che Gianni Oliva ha ricostruito in un libro avvincente (“Gli ultimi giorni della monarchia “, Mondadori, 2016). L’antefatto: il 2 e 3 giugno 1946 i nostri concittadini si mettono disciplinatamente in coda davanti ai seggi. La scheda elettorale che si trovano tra le mani è semplice, con un titolo sintetico (“Referendum sulla forma istituzionale dello Stato”). Sulla sinistra, la parola “Repubblica”. Sulla destra, la parola “Monarchia”.

Quando le urne si chiudono, al neonato suffragio universale hanno partecipato quasi venticinque milioni di votanti (di cui tredici milioni donne), il 90 per cento degli aventi diritto. Ma il conteggio è lento e fornisce risultati sensibilmente diversi da quelli attesi: anziché una travolgente vittoria repubblicana, una vittoria controversa e un paese geograficamente spaccato in due: il Sud monarchico, il Centronord repubblicano. I risultati definitivi arrivano nel corso della notte tra il 4 e il 5 giugno: 54 per cento alla repubblica e 46 per cento alla monarchia, uno scarto di circa un milione e settecentomila voti. Il “ribaltone” è un calice amaro per i perdenti: serpeggiano le prime voci di brogli, si accusa il governo di aver manipolato i dati, si fa strada la leggenda metropolitana secondo cui Giuseppe Romita, il ministro degli Interni, avrebbe nascosto nei cassetti del Viminale un milione di schede prevotate per la repubblica.

L’esito del referendum spiazza i partiti del Comitato di liberazione nazionale (tutti filorepubblicani, escluso quello liberale). Erano infatti convinti che gli elettori avrebbero duramente punito la “fellonia” di Vittorio Emanuele III (copyright Palmiro Togliatti): il fascismo, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler, un conflitto bellico rovinoso, l’8 settembre 1943, la fuga a Pescara. D’altro canto, quel 46 per cento non lenisce l’amarezza degli sconfitti. Montagne di ricorsi vengono inoltrate alla Suprema Corte. Tra bizantinismi giuridici e schermaglie politiche, la confusione sale alle stelle. Come annota Vittorio Gorresio, allora capocronista del “Risorgimento Liberale” di Mario Pannunzio, a Roma “la folla a piazza Montecitorio chiedeva la bandiera, ma non ne fu esposta nessuna perché non si sapeva quale”. E, insieme ai ricorsi, scattano le manifestazioni di protesta. Qui entrano in scena le masse napoletane.

Il 6 giugno il loro risveglio è brusco: mentre otto su dieci abitanti avevano scelto la monarchia (superati soltanto dai messinesi, catanesi e palermitani), la maggioranza degli italiani aveva optato per la repubblica. Il clima si surriscalda a metà pomeriggio, quando in piazza del Carmine una ressa di donne comincia a lanciare insulti contro i repubblicani “affamatori del popolo”. Sul calare della sera, almeno cinquecento giovani si dirigono verso la stazione dei carabinieri di via Sant’Antonio per impadronirsi dell’armeria, contando sulla tradizionale fedeltà del Corpo alla dinastia sabauda. Per tutta risposta, il maresciallo che comandava la stazione fa sparare in aria alcuni colpi di fucile a scopo intimidatorio. I manifestanti all’inizio si disperdono, ma presto tornano alla carica scatenando una vera e propria guerriglia urbana. Sedati a fatica i tumulti, si contano numerosi contusi e sei feriti gravi.

Nella mattina del giorno successivo, sui muri del capoluogo campano vengono affissi manifesti firmati da un fantomatico “schieramento monarchico”, in cui si invoca la separazione di Napoli dall’Italia e la creazione di uno Stato indipendente guidato da Umberto II. Verso mezzogiorno un migliaio di persone inneggianti alla monarchia si raduna in piazza Carlo III. In un battibaleno si forma un corteo enorme, che muove verso la ferrovia scandendo “Vi-va-il-re” e slogan contro la “truffa del referendum”. Ci sono studenti universitari, bottegai, artigiani, manovali edili, braccianti, sfaccendati senza mestiere e perfino qualche intellettuale. L’iniziativa, in cui si distinguono i militanti dei “Gruppi Savoia”, la più combattiva tra le associazioni monarchiche partenopee, da testimonianza di fede si trasforma rapidamente in un’esibizione muscolare.

L’11 giugno gli attivisti monarchici scendono nuovamente in campo. Il teatro principale degli scontri è adesso via Medina, dove è ubicata la sede della Federazione comunista. Per impedirne la devastazione, alcuni agenti sparano sui manifestanti più scalmanati. Il movimento di protesta si trasforma in un movimento di tipo insurrezionale. Seguono scontri durati più di tre ore: auto incendiate, vagoni tranviari rovesciati, trincee di fortuna nei viottoli circostanti. La situazione si fa particolarmente critica per i militanti comunisti asserragliati nei locali della Federazione, tra i quali c’è un giovanissimo Giorgio Napolitano. La notte trascorre tra le sirene delle ambulanze e il rumore sordo delle autoblinde. Il bilancio viene stilato dalla questura nei giorni seguenti: settantuno i feriti ricoverati in ospedale, undici i morti, nove civili e due agenti.

Il 13 giugno Umberto II rientra al Quirinale. Alcide De Gasperi è stato appena avvertito della sua decisione di lasciare l’Italia. La partenza per l’esilio portoghese è però accompagnata da un proclama, che l’Ansa trasmette in serata. In esso il “re di maggio” accusa il governo da avere assunto “con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano”, e di averlo “posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza”. Il 16 giugno i giornali non parlano più di Umberto II, del referendum e dei morti di Napoli. I titoli sono tutti per lo sconosciuto ciclista triestino Giordano Cottur: ha staccato gli avversari sulla salita di Superga, indossando la prima maglia rosa del “Giro della rinascita”.

Accadrà lo stesso tra sei mesi, quando la Juventus vincerà il sesto scudetto di fila? Chi vivrà vedrà.

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