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Giovedì in serata il premier Paolo Gentiloni ha tirato le prime conclusioni degli studi di una Commissione di esperti sul terrorismo: in Italia “il percorso di radicalizzazione oggi è soprattutto in alcuni luoghi: carceri da un lato, web dall’altro”, ed è lì che bisogna “lavorare”, ha spiegato il presidente del consiglio durante la conferenza stampa in cui era affiancato dal ministro degli Interni Marco Minniti, degli Esteri Angelino Alfano e della Difesa Roberta Pinotti.

“C’è una specificità nel nostro paese. Per certi versi è più rassicurante, nel senso che le dimensioni numeriche della radicalizzazione sono minori che in altri paesi” ricordando che anche il fenomeno dei foreign fighters, i combattenti partiti da vari paesi del mondo per unirsi al jihad califfale, ha “una dimensione numerica minore”. Il rischio connesso alla diffusione di combattenti stranieri che da ogni angolo del mondo, dalla Cina alla Francia fino al Bangladesh, hanno deciso di percorrere la hijra, il viaggio, per unirsi ai combattenti del Califfo in Siraq è connesso soprattutto al cosiddetto “terrorismo di ritorno”: ossia, le azioni di questi elementi, al massimo della radicalizzazione e della formazione/esperienza militare, al ritorno nei propri paesi d’origine. Dalle cifre esposte da Marta Serafini, giornalista del Corriere della Sera e membro della Commissione insediatasi a Palazzo Chigi il primo di settembre scorso, sarebbero per ora 17 i “returnees” rientrati in Italia, “ma con le sconfitte sul campo in Medio Oriente, è facile che il loro numero cresca”.

Il punto è come gestirli, anche sotto l’aspetto legale: non è possibile sempre ripercorrere le azioni seguite in Siria o Iraq, certe volte ci sono video in cui vengono ripresi in atti barbari, azioni armate, esecuzioni, e allora è più facile il perseguimento penale; ma nella gran parte delle circostanze non c’è certezza sul livello di coinvolgimento. Fin dove si sono spinti? Ci sono reati configurabili? O ancora, quanto è reale il pentimento che li ha portati al rientro? Oppure, il “ritorno” si porta dietro un piano di azione? Serve l’intelligence per monitorarli, ma servono dei metodi di rehab, fornire un’alternativa al terrorismo ha detto giovedì Minniti.

“La minaccia non autorizza a relazioni improprie tra terrorismo e migrazione” ha detto Gentiloni: ““Abbiamo bisogno di prevenzione e di politiche migratorie sempre più efficaci” in grado di “coniugare soccorso e accoglienza” con “la capacità di avere politiche di rigore ed efficacia dei rimpatri. Questa è la bussola su cui si muove il governo”. Anche per questo la prossima settimana sarà proprio Minniti ad essere impegnato per conto del governo di Roma in un difficoltoso viaggio in Libia per cercare di trovare una via di intesa con l’ombra di governo che cerca di controllare Tripoli. Rendere effettivi i respingimenti forzati, è la linea di Minniti: lo “prevede la legge, e troverei singolare il mancato rispetto della legge da parte mia, come ministro dell’Interno e come cittadino”. “Contesto l’affermazione dell’Italia come sliding door del terrorismo. Il nostro paese ha un sistema che funziona, ma che può essere migliorato”, ha detto il capo del Viminale ricordando che già in 133 sono stati espulsi preventivamente.

Le parole di Minniti hanno cercato anche il complicato compito di suonare rassicuranti: la minaccia terroristica rappresentata dall’Isis è restata perfettamente in piedi nonostante l’arretramento territoriale in Siria, Iraq o Libia, e si ripetono le ricostruzioni giornalistiche sulle problematiche delle intelligence dei paesi europei che hanno subito attacchi, come il Belgio e la Germania.

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