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Anche nel caso del Sì referendario alla riforma costituzionale annunciato da Romano Prodi, pur tra critiche al testo e allo stesso Matteo Renzi, troppo divisivo per i suoi gusti, c’è da chiedersi se vale più la notizia o l’effetto che ha prodotto. Effetto, direi, di sgomento per il fronte del No, già troppo brancaleonesco di suo ma adesso ancora di più perché è riuscito a dividersi, fra il livore e l’indifferenza, pure nelle reazioni all’annuncio dell’ex presidente del Consiglio, ex presidente della Commissione europea di Bruxelles, ex fondatore o protagonista dell’alleanza dell’Ulivo e poi dell’Unione.

Il buon Pier Luigi Bersani non me ne vorrà se vedendolo commentare in televisione l’annuncio di Prodi, con quell’aria un po’ troppo di sufficienza, l’ho scambiato per un Lenin redivivo, con quella pelata bella lucida, che scopiazzava il suo successore Josif Stalin nella celebre e sarcastica domanda, mentre si spartiva l’Europa con i vincitori della seconda guerra mondiale, su quante divisioni avesse il Papa. Il quale si era permesso di far conoscere le sue apprensioni per quanto potesse accadere ai cattolici dei paesi europei destinati all’influenza sovietica.

Non parliamo poi di Massimo D’Alema, talmente infastidito dall’annuncio di Prodi da accelerare il passo fra chi gli chiedeva un commento e da sparire all’orizzonte delle telecamere e macchine fotografiche, infilandosi nell’ennesima sala, credo, dove spargere di battute più o meno sprezzanti il solito, assente Matteo Renzi. Al quale qualche giorno fa, da quel di Campobasso, ha ironicamente promesso di proteggerlo dal prevedibile “assalto dei cani” quando avrà perduto il referendum di domenica e sarà abbandonato da molti di quelli che sono passati con lui e gli stanno intorno solo per convenienza.

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A dimostrazione della sua capacità di soccorrere generosamente chi cade in disgrazia, magari anche per i colpi infertigli da lui, D’Alema ha un po’ troppo imprudentemente rivendicato il merito di avere quanto meno tentato, senza riuscirvi, di far tornare in Italia da uomo libero il povero Bettino Craxi. Che alla fine del 1999 aveva imboccato, con un difficile intervento chirurgico disposto dai suoi medici di Milano ma eseguito nell’ospedale militare di Tunisi, l’ultima curva della sua vita di “latitante”, come sprezzantemente lo chiamavano in Italia gli avversari politici e i magistrati che l’avevano processato, giudicato e condannato ad una velocità supersonica, per le abitudini giudiziarie di casa nostra. I reati contestatigli, come tutti sanno, erano comuni a quelli compiuti a lungo dalla generalità dei partiti: finanziamento illegale e derivati. Ma per lui, e il Psi, c’era paradossalmente l’aggravante di averli ammessi con un discorso nell’aula di Montecitorio che fu usato dall’accusa, a dispetto dell’immunità parlamentare ancora integra nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione, come prova a suo carico.

L’imprudenza di D’Alema nel rivendicare l’aiuto a Craxi sta tutta nella reazione della figlia dello scomparso leader socialista, Stefania. Che ha ricordato come l’allora presidente del Consiglio si fosse piegato, senza un minimo di reazione pubblica e politica, che non gli sarebbe costato nulla neppure sul piano penale, al rifiuto della magistratura milanese di lasciare ricoverare Craxi in un ospedale italiano senza farlo piantonare dalle guardie come un detenuto. Ed ha sarcasticamente aggiunto, Stefania, parlando di Renzi, che pure non le sta per niente simpatico, contro la cui riforma è ben decisa a votare domenica prossima: “Se posso dargli un consiglio, gli suggerirei in caso di bisogno di sperare in tutt’altro soccorritore”.

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Debbo dire, per completare il quadro o il racconto, che generosamente la figlia di Bettino ha evitato di rievocare l’ultimo, proprio l’ultimo dispiacere procurato al padre dall’allora presidente del Consiglio D’Alema. Che gli mandò gli auguri di buona salute con un messaggio diplomatico firmato solo con la sua qualifica di governo, senza nome né cognome. Un messaggio che, recapitatogli dall’ambasciatore italiano a Tunisi, Craxi appallottolò in una mano e buttò via.

Ben altro, del resto, era il soccorso cui teneva Craxi dopo tanti anni di pene, di insulti, di aggressioni. Gli serviva un soccorso politico, una difesa del ruolo svolto al servizio del Paese, il riconoscimento della sua leadership politica, non criminale. Un soccorso concessogli alla memoria dieci anni dopo la morte dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma negatogli ancora da D’Alema. Che, d’altronde, nel 1993 partecipò silenziosamente, senza un cenno di disapprovazione o disagio, ad un infelicissimo incontro dell’allora segretario del suo partito, Achille Occhetto, col segretario della Dc Mino Martinazzoli, nell’ufficio del capogruppo scudocrociato della Camera Gerardo Bianco. In quell’occasione fu chiesto come prova di svolta e lealtà politica l’annuncio che i deputati democristiani avrebbero votato a scrutinio obbligatoriamente segreto contro Craxi per le “autorizzazioni a procedere” chieste da varie Procure. E quando questo non si verificò, per protesta i ministri del Pds-ex Pci uscirono dal governo appena formato da Carlo Azeglio Ciampi, mentre una folla inferocita aggrediva Craxi all’uscita dalla sua residenza alberghiera sommergendolo di insulti, sputi, monetine, sigarette accese, ombrelli e accendini. Fu una dimostrazione d’inciviltà paragonabile, fatte le debite proporzioni, allo scempio dei cadaveri di Mussolini, Petacci eccetera nella piazza di Milano dove erano stati appesi.

Il buon Gerardo Bianco è felicemente e fortunatamente in vita. Debbo al suo racconto la descrizione di quell’infelicissimo, spietato incontro tra Occhetto e Martinazzoli perché si coartasse il voto “secondo coscienza”, giustamente rivendicato dal segretario della Dc per i deputati del suo partito, pur di consentire agli avversari di Craxi di portare a termine la loro offensiva politica. Che a quel punto era anche un’offensiva personale.

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Ma torniamo al referendum cui mancano finalmente pochissimi giorni. Vi torno per aggiungere all’annuncio del Sì di Romano Prodi la conferma di quello di Eugenio Scalfari sulla sua Repubblica con un intervento ch’egli ha voluto anticipare rispetto al consueto appuntamento domenicale con i lettori. Ciò per evitare, evidentemente, di essere accusato dagli amici e nemici del fronte del No, fra i quali l’esigentissimo giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, di violare il silenzio che dovrà calare la sera di venerdì sulla campagna elettorale.

Anche Scalfari comunque ha dovuto pagare pegno al Sì precisando di non essere un estimatore al cento per cento di Renzi. Che se ne farà una ragione e lo ringrazierà di cuore lo stesso, come ha fatto d’altronde con Prodi.

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