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Dopo il Corriere della Sera, col combinato disposto di un editoriale di Paolo Mieli e di una intervista di Aldo Cazzullo, anche la Repubblica si sta spendendo per la candidatura del guardasigilli Andrea Orlando a segretario del Pd, sia pure con minore slancio, o maggiore prudenza, come si preferisce.

Paolo Mieli, per esempio, ha scritto qualche giorno fa che la “partita è aperta, apertissima” fra l’ex segretario alla ricerca biasimevole di una “rivincita” e il più mite Orlando che si è candidato, anche se Mieli ha omesso di ricordarlo, non solo e non tanto alla segreteria quanto all’ancora più ambiziosa rifondazione del partito, che pure è nato meno di dieci anni fa con la fusione fra i resti del Pci, della sinistra democristiana ed altri ingredienti ambientalisti. “Un amalgama mal riuscito”, sentenziò già l’anno dopo Massimo D’Alema cominciando a scavare il terreno sotto l’allora povero segretario, e già altre volte suo concorrente, Walter Veltroni. E ora che se n’è andato, non contento di avere contribuito a infliggere a Matteo Renzi la cocente sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, ha dato della scissione una versione addirittura infermieristica parlando del “cerotto” su una ferita che a strapparlo fa male, ma poi fa bene.

Ma torniamo all’ex direttore del Corriere della Sera con quella “partita aperta, apertissima”, annunciata dopo avere scritto che non si poteva considerare scontata la vittoria attribuita dai sondaggi sulle primarie a Matteo Renzi o, peggio ancora, attribuitasi dallo stesso Renzi, ancora troppo baldanzoso dopo il rovescio del referendum costituzionale.

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Alla Repubblica, invece, il più prudente Stefano Folli ammette ogni volta che gli capita il carattere scontato della vittoria congressuale di Renzi, nonostante i danni subìti, dopo lo strappo del cerotto della scissione, dai contraccolpi mediatici del coinvolgimento del padre Tiziano e dell’amico Luca Lotti nelle indagini sugli appalti della Consip e accessori.

Ma, per quanto ancora scontata, la rielezione di Renzi alla segreteria del Pd non viene ritenuta da Folli un affare per il partito e, più in generale, per la governabilità del Paese. Pertanto sarebbe meglio per i lettori di quel giornale investire non dico su Michele Emiliano, che anche a Folli deve sembrare una specie di sfasciacarrozze politico, ma su Orlando.

Chissà, a questo punto, che cosa ne penserà Scalfari, che nei suoi appuntamenti domenicali con i lettori, mi sembra invece dare ancora credito a Renzi. Che, se fosse dipeso da lui, e non solo dal presidente della Repubblica vera, senza il corsivo della carta, avrebbe dovuto restare a Palazzo Chigi anche dopo la sconfitta nel referendum, accettando di essere rimandato alle Camere, dopo dimissioni di facciata, per ottenere con un voto di fiducia la rilegittimazione politica. A questo punto, in effetti, la situazione sarebbe diversa. Non si starebbe forse neppure facendo il congresso. E – chissà – non si sarebbe neppure consumata la scissione del Pd, visto che essa è esplosa proprio per i tempi del congresso “cotto e mangiato”, secondo Pier Luigi Bersani, o “col rito abbreviato”, secondo Emiliano. Che pure aveva minacciato il ricorso ai tribunali, con “le carte bollate”, se Renzi non si fosse affrettato ad avviare le procedure congressuali, secondo uno statuto che poi il governatore pugliese ha dimostrato di non conoscere quando ne ha i contestato i tempi, secondo lui troppo stretti.

L’inconveniente di un Renzi scontatamente tornato alla guida del Pd, secondo Folli, starebbe nel suo carattere irrimediabilmente diviso nei rapporti con la sinistra esterna al Pd, di cui egli invece avrebbe bisogno per governare dopo le elezioni con la prevedibile riesumazione del sistema elettorale proporzionale, per quanto corretto. Orlando, invece, questa capacità di collegarsi con la sinistra, fuoriuscita e non dal partito, l’avrebbe. A meno che un Renzi tornato al partito – ma questo Folli, almeno per ora, non l’ha neppure ipotizzato – rinunci a tornare anche a Palazzo Chigi e vi mandi proprio Orlando dovendo garantire la formazione, appunto, di un governo. D’altronde, il guardasigilli lo ha sostenuto fino a poche settimane fa ed è rimasto disciplinatamente nel Pd quando è uscito invece dalla maggioranza interna.

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Lo scenario dipinto da Folli di un Renzi destinato a paralizzare o sterilizzare il Pd, per quanti voti potrà prendere alle elezioni, ordinarie o anticipate che possano risultare, ne comporta anche un altro. Che potrebbe anche giustificare il grande pessimismo dell’editorialista di Repubblica, spintosi di recente ad auspicare un intervento deciso del capo dello Stato per sottrarre il Paese – chissà come – al rischio di imitare la Germania di Weimar, la cui politica frammentata e rissosa, nel contesto di una grave crisi economica e sociale, consentì la nascita e la crescita del nazismo.

L’altro scenario post-elettorale di un Renzi rieletto segretario del Pd che Folli sembra escludere è quello di un’intesa di governo fra lo stesso Renzi, ciò che sarà sopravvissuto dei centristi “diversamente berlusconiani” e lo stesso Silvio Berlusconi. Che in tal caso dovrebbe rompere con i leghisti di Matteo Salvini e dei Fratelli d’Italia di Gorgia Meloni, se mai fosse riuscito ad andare alle elezioni d’intesa con loro, mettendo la sordina a tutte le questioni politiche e rivalità personali che li dividono.

Forse il mio amico Stefano Folli non ritiene probabile una vera capacità di Berlusconi di rompere con i leghisti e la destra, neppure con lo spregiudicato “gioco delle parti” attribuito all’uno e agli altri, proprio su Repubblica, da Piero Ignazi. O forse Stefano ritiene che Pd, centristi e Berlusconi non avranno i numeri per fare maggioranza nel nuovo Parlamento. Può darsi. Non sarebbe d’altronde il solo a prevederlo, o a temerlo, o ad auspicarlo, secondo i gusti.

ANDREA ORLANDO

Cosa si dice a Repubblica e Corriere della Sera di Matteo Renzi e Andrea Orlando

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