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Ha avuto ragione a nostro avviso il prof. Marco Fortis a definire sull’Unità il dibattito sulle previsioni di crescita del Pil per il prossimo anno “una tempesta in un bicchiere d’acqua” che ha visto, da una parte, Banca d’Italia, Corte dei Conti e Ufficio parlamentare di Bilancio esprimere dubbi sulla possibilità di raggiungere il tasso di crescita dell’1% indicato dal governo e il ministro Padoan, invece, ritenerlo plausibile: una tempesta in un bicchiere d’acqua perché – come poi hanno dimostrato anche i dati dell’Istat rivisti (ad un anno e mezzo di distanza) per il Pil 2014 che lo hanno fatto salire da un – 0,3% sul 2013 ad + 0,1% – le revisioni dell’Istituto centrale di statistica finiscono spesso col dare ragione a chi di volta in volta immagina, analizzando le dinamiche dell’economia reale, che i dati preliminari siano spesso sottostimati.

Ma ci sarebbero altre considerazioni da offrire all’attenzione dei lettori su quanto affermato in questi giorni da Banca d’Italia e Ufficio parlamentare di bilancio, cui ha risposto il ministro Padoan, affermando invece che l’obiettivo dell’1% è alla nostra portata.

Quando il governo fissa quel tasso di crescita per il 2017 e su di esso si accinge ad impostare i provvedimenti contenuti nella legge di bilancio, è del tutto evidente – ma a molti osservatori qualificati tutto ciò purtroppo sfugge – che indica un obiettivo che dovrebbe essere poi impegno comune dell’intero Paese raggiungere. È una ovvietà, ne siamo consapevoli, ma vogliamo ribadirla con convinzione perché spesso si dimentica che con il governo dovrebbero essere poi tutti i cittadini ed in primis i settori produttivi e le Istituzioni elettive locali a fare bene e sino in fondo la propria parte. Ma avviene sempre così? Ne vogliamo parlare, al di fuori di certo dogmatismo previsionale dei modelli econometrici o, meglio, cercando di comprendere quanto quei modelli (e chi li elabora) recepiscano sino in fondo le specificità dei comportamenti reali di imprese e territori? E vogliamo uscire dal chiuso di ovattati uffici studi per andare (tutti) a visitare il Paese reale che produce, esporta, innova e compete? E vogliamo farlo sempre più spesso, viaggiando in diverse località (dal Nord al Sud) per analizzare da vicino e comprendere meglio ciò che accade quotidianamente nel corpo vivo e profondo dell’Italia?

Affermo tutto ciò perché – come ho scritto su questa testata a proposito dei dati dell’Istat riguardanti la mancata crescita nel secondo trimestre dell’anno – un’attenta analisi sul campo di tanti aspetti dell’economia meridionale mi induce ad essere molto cauto nell’affermare che in quel periodo la ricchezza nazionale non sia cresciuta. E lo stesso dicasi per il terzo trimestre, conclusosi nei giorni scorsi e che ha fatto registrare fra l’altro: 1) un eccellente andamento della stagione turistica in larga parte del Paese che dovrà (sperabilmente) essere stimato con la maggiore accuratezza possibile, ma di cui è quasi impossibile conoscere con esattezza i dati completi di arrivi e presenze, avvenuti spesso in strutture ricettive non censite; 2) un trend apprezzabile della produzione industriale in comparti trainanti del manifatturiero nazionale (automotive, farmaceutico, agroalimentare, etc), con incrementi percentuali di vendite di auto a due cifre ad agosto e settembre; 3) una vivace dinamica di alcuni settori dei servizi; 4) un buon andamento di alcune produzioni agricole fondamentali per il nostro Paese.

Insomma, nell’Italia reale, al Nord come al Sud – fuori dai salotti dei talk show televisivi e lontano dai convegni degli ‘economisti della tartina’ – sezioni e categorie molto vivaci del mondo produttivo nazionale affrontano con grande determinazione le sfide (durissime) della globalizzazione. Ma è dappertutto così? E la Confindustria non ha da interrogarsi sino in fondo su tante imprese locali sue associate che in diverse zone del Paese (e non solo nel Mezzogiorno) non tengono il passo della competizione per carenze gestionali, obsolescenza di prodotti, gracilità manageriali, irriducibile e miope familismo? Ed inoltre, come valutare le sollecitazioni (e le critiche) della stessa Confindustria quotidianamente rivolte al Governo, quando poi si apprende che il suo quotidiano, Il Sole 24 Ore, quotato a Piazza Affari, ha registrato pesanti perdite nel 1° semestre dell’anno, costringendo molti componenti del suo consiglio di amministrazione a dimettersi e imponendo all’azionista una significativa ricapitalizzazione?  Medice, nosce te ipsum, verrebbe da esclamare.

Ed ancora, che dire di certi settori merceologici e di molte organizzazioni territoriali di tante altre categorie produttive – sempre pronte a chiedere provvidenze, incentivi, sgravi, detrazioni – e che poi alla prova dei fatti finiscono col rivelarsi elementi di persistente debolezza del nostro tessuto economico? E come giudicare certi dipartimenti di alcune università italiane, ove da anni ormai molti docenti non svolgono più attività di ricerca e che pertanto risultano sistematicamente agli ultimi posti nelle graduatorie che le certificano?

E quanti sono i Comuni italiani amministrati con efficienza manageriale e capaci di offrire realmente servizi qualificati a cittadini e imprese? E quanti sono quelli in grado di recuperare sino in fondo le evasioni diffuse di diverse imposte locali?

Certo, il governo deve guidare il Paese, ma sono tutte le sue articolazioni istituzionali, produttive, scientifiche e culturali che dovrebbero muoversi all’unisono, raccogliendo e amplificando (ove se ne sia capaci) gli stimoli che giungono dagli atti dell’esecutivo, ma nessuno nel profondo della società nazionale può e deve aspettare restando a braccia conserte, pensando che tocchi sempre e solo al governo provvedere al raggiungimento del bene comune.

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