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Ora che la Corte Costituzionale ha finalmente depositato e pubblicato la sentenza sulla legge elettorale per la Camera, nota come Italicum, non resta che assistere ai soliti giochi interpretativi che vorranno fare esperti, partiti e correnti per l’atteso intervento parlamentare sulla materia. Su cui anche i giudici del palazzo della Consulta hanno mostrato di contare per “non ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze omogenee”.

C’è tuttavia da chiedersi, ma soprattutto da chiedere alla Corte Costituzionale, e non solo per puro gusto dialettico, se di una simile necessità non si fossero già fatti carico i giudici della Consulta sforbiciando l’Italicum e certificando, con tanto di documento ufficiale, precedente al deposito della sentenza, la immediata applicabilità di quel che del testo legislativo era rimasto dopo i tagli. Una immediata applicabilità, peraltro, pari a quella dell’altra legge elettorale sforbiciata dalla Corte con una sentenza di tre anni fa e valida ora solo per il Senato, visto che per la Camera, e solo per essa, vale appunto l’Italicum.

Non si capirebbe che senso avrebbe l’applicabilità di una legge uscita dall’esame della Corte se non potesse garantire, con altre in vigore, la “formazione di maggioranze omogenee” in Parlamento dopo le elezioni. Lo dico senza nessun imbarazzo di trovarmi d’accordo con quanti, sul fronte politico, hanno reclamato le elezioni anticipate senza un ulteriore intervento legislativo. O le reclamano con i due testi in vigore, per il Senato e per la Camera, se non dovessero risultare possibili modifiche in Parlamento entro la fine di questa legislatura, cioè entro un anno.

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Nel riaprire la partita sul piano politico e parlamentare, anche a costo – ripeto – di smentire la immediata applicabilità garantita da essa stessa alle leggi elettorali in vigore, la Corte Costituzionale si è divertita, diciamo così, a lanciare una sfida ai legislatori. Non trovo francamente un altro termine da usare di fronte all’avvertimento dei giudici sulla portata della bocciatura del ballottaggio originariamente previsto dall’Italicum fra le due liste più votate nel primo turno elettorale senza essere riuscite a raggiungere il 40 per cento necessario alla conquista, con il cosiddetto premio di maggioranza, di quasi il 55 per cento dei seggi della Camera.

A quel ballottaggio –hanno avvertito i giudici, come per invitare o, appunto, sfidare il Parlamento a provarci adesso- mancavano alcuni requisiti per renderlo compatibile con i principi e i valori protetti dalla Costituzionale. In particolare, mancavano le soglie minime di accesso al ballottaggio e poi di partecipazione degli elettori al secondo, decisivo turno di voto. Provino, quindi, ora le Camere a stabilire queste soglie e a rendere il ballottaggio praticabile.

I sostenitori del sistema elettorale maggioritario, insofferenti o allarmati dalla prospettiva di un ritorno al vecchio sistema elettorale proporzionale della cosiddetta e odiata prima Repubblica, si possono considerare in qualche modo riarmati dalla sentenza della Consulta. E cercare di giocare a loro favore la partita in corso in Parlamento per non lasciare l’ultima parola in materia di disciplina elettorale ai giudici costituzionali.

Su questo, o su altri versanti, tutto potrà essere quindi possibile, anche la complicazione ulteriore del quadro politico, visto che i confini sono notoriamente e inevitabilmente labili fra ragioni e pretesti per avvicinare o allontanare il momento del voto, tenendo presente solo una cosa: che non si potrà andare oltre la conclusione ordinaria della legislatura, fra un anno, a meno che non si dichiari la guerra alla povera Repubblica di San Marino per reclamare la proroga di questa accidentatissima legislatura in base alle parole finali dell’articolo 60 della Costituzione.

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Il primo appuntamento politico con la sentenza della Corte Costituzionale ce l’ha Matteo Renzi nella direzione del Pd convocata per lunedì 13 febbraio. Si tratta di un passaggio decisivo per la sorte non solo della segreteria del Pd -ormai accerchiata da avversari dichiarati e da componenti della maggioranza a dir poco sofferenti-  ma anche della legislatura e, in funzione di questa, dello stesso governo.

Non passa giorno, ormai, senza che al minestrone parlamentare non vengano aggiunti elementi in grado di cambiarne sapore e natura.

Alla quarantina di senatori del Pd usciti allo scoperto con un documento contro la corsa alle urne ancora attribuita a Renzi, nonostante il segretario del Pd mostri o finga un minore interesse a quest’epilogo, si sono aggiunti altrettanti deputati, se non anche senatori, insorti contro la possibilità che il governo aumenti i prelievi fiscali –accise- su benzina e tabacchi per la manovra correttiva sui conti reclamata dalla Commissione europea di Bruxelles.

Poiché questa possibilità è stata prospettiva dallo stesso governo, in particolare dal ministro dell’Economia, che non vuole correre rischi di procedure d’infrazione destinate in questo momento a far salire ancora di peso mister Spread, si potrebbe pur intravvedere dietro questa mobilitazione all’interno del Pd la possibile miccia di una crisi di governo, che potrebbe far precipitare tutto, anche la legislatura, visto che in ogni caso ci sono due leggi elettorali in vigore, entrambe immediatamente applicabili –ripeto- per certificato della Corte Costituzionale.

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Due parole infine sul Campidoglio, solo per dire che la sindaca grillina Virginia Raggi, dopo l’incidente avuto anche con l’assessore “con riserva” all’Urbanistica Paolo Berdini, è riuscita a guadagnarsi l’imperdibile vignetta della lupa dalla quale si sono staccati anche Romolo e Remo. Si ride naturalmente per non piangere.

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