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La più antica tradizione di Roma è l’indolenza. Quel distacco dalle cose terrene che spesso sconfina nel cinismo di chi, per secoli, ha vissuto ogni atto dell’umana commedia. E che ora non é in grado di esprimere alcuna meraviglia di fronte a qualsiasi altro avvenimento. Perché la sottostante fattispecie è stata metabolizzata almeno cento anni fa. E quindi non alimenta aspettative o curiosità. Analisi che deve essere aggiornata, alla luce degli ultimi avvenimenti.

Naturalmente si può essere contro la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 per mille ragioni e motivi. Si può pensare che lo spettacolo non interessi milioni di individui, sparsi nei cinque Continenti: i cerchi della bandiera olimpica. Che lo sport sia cosa dannosa, da non incentivare. Che il prestigio internazionale che deriva da una simile scelta non valga gli affanni e le preoccupazioni che un simile evento comporta. Che, come sostenne Mario Monti, l’Italia non aveva soldi da investire, considerato la cupezza dell’austerity. Ragioni, evidentemente, più che discutibili ed estremamente deboli. Ma la cosa che non si può fare è quella di non presentarsi al confronto conclusivo con coloro ai quali era stato demandato l’onere di rappresentare i colori italiani, per la scelta dell’eventuale sito. Questo è lo scandalo nello scandalo.

Giovanni Malagò non è un privato cittadino, con un chiodo fisso nella testa. A legittimare il suo operato era stato, oltre il viatico del governo, una delibera del Comune di Roma che lo autorizzava. Oltre tutto ratificata dal Commissario straordinario: il prefetto Tronca. Ora il nuovo sindaco di Roma ha tutto il diritto di ripensarci. Ma non può fuggire di fronte alle sue responsabilità e disertare l’incontro del necessario chiarimento. Qui la politica c’entra poco. É il rapporto istituzionale tra due diverse entità ad entrare in crisi, creando un casus belli, che Roma non aveva mai conosciuto.

C’é solo da aggiungere che se prima esisteva una delibera dell’assemblea, l’eventuale ripensamento richiede la stessa legittimazione. Quindi una discussione nell’Aula di Giulio Cesare e una conseguente determinazione. Se ciò non dovesse avvenire qualcuno dovrà assumersi la responsabilità della rottura traumatica del procedimento amministrativo, i cui eventuali costi – viste le spese legittimamente sostenute – non potrebbero non gravare sul responsabile – il Sindaco – della trasgressione.

Ma questi sono, per così dire, aspetti successivi. Qui è la diserzione l’aspetto più inquietante: indice delle grandi difficoltà in cui versa Virginia Raggi, stretta nella morsa di un dilemma inconciliabile. Da un lato Beppe Grillo, dall’altro le ragioni della città. Ma se il Sindaco non ha il coraggio di incontrare Malagò come può pensare di governare una Capitale in cui il più piccolo problema ha una valenza cento volte superiore?

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