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Quali somme possiamo trarre post stagione assembleare in Italia?

In primo luogo è possibile riscontrare un nuovo approccio degli investitori nei confronti delle liste presentate dagli azionisti di maggioranza, difatti nei rinnovi dei consigli di amministrazione di Intesa Sanpaolo e Assicurazioni Generali si è registrato un forte consenso da parte del mercato, frutto di un costante dialogo con il mercato da parte degli emittenti, con risultati nettamente in controtendenza rispetto alle precedenti stagioni nelle quali gli investitori istituzionali hanno supportato le liste coordinate da Assogestioni.

In tal senso le evidenze del centro studi di Sodali dimostrano che a fronte di un supporto totale del 67,41% in Generali e del 61,05% in Intesa San Paolo, si è raggiunto un forte livello di consenso da parte delle minoranze azionarie in entrambi le compagnie.

Di senso diametralmente opposto il risultato del rinnovo del consiglio di Snam, nel quale gli istituzionali hanno garantito un consistente supporto alla lista di Assogestioni, una lista di minoranza.

Pertanto la lista di CDP mantiene la maggioranza in consiglio soltanto attraverso il meccanismo statutario, in base al quale si procede al voto a maggioranza semplice in assemblea, stante il mancato raggiungimento del numero di amministratori determinati dall’assemblea.

Il secondo tema è il say on pay, sul quale preliminarmente è possibile osservare che il livello di supporto da parte degli azionisti alle politiche di remunerazione delle società quotate italiane è ancora inferiore alle medie registrate in mercati europei come Francia, Spagna e UK.

Se da un lato esistono esempi di eccellenza come Prysmian, Intesa Sanpaolo, UniCredit ed ENI che mantengono un livello di supporto delle minoranze azionarie tra i più elevati dell’indice FTSE Mib, vi sono società come Ferragamo, Tod’s, Banca Mediolanum, Luxottica e Mediaset che raggiungono un livello di supporto inferiore al 50% del voto espresso dagli azionisti di minoranza.

La stagione assembleare 2016 si distingue anche per la bocciatura della politica di remunerazione di Cerved da parte dell’assemblea degli azionisti, primo caso effettivo in Italia dall’implementazione del say on pay. Tale risultato implica una forte riflessione rispetto alle pratiche retributive della società e al livello di disclosure complessivo ai fini di un maggior allineamento con le aspettative della comunità finanziaria.

D’altronde, se la bocciatura delle politiche di remunerazione rappresenta un primo caso in Italia, ( tra l’altro in una società non facente parte dell’indice principale), non può dirsi altrettanto negli altri paesi europei, basti pensare che la cosiddetta “shareholder springs” ha registrato sonore bocciature delle politiche remunerative di veri e propri giganti industriali, o forme pressione da parte di attivisti sui pacchetti retributivi, si pensi a titolo esemplificativo:

– In Francia all’assemblea di Renault il 54% degli azionisti, tra cui lo stato Francese, hanno espresso un voto contrario al pacchetto retributivo di Ghosn. Nonostante la bocciatura la società Renault decideva di non tenere in considerazione il voto consultivo sulla remunerazione da parte degli azionisti, producendo come conseguenza l’intervento in sede legislativa da parte dello stato francese ed in sede di autoregolamentazione per rendere il voto vincolante.
– In UK il 59,39% degli azionisti si è espressa in senso contrario alla remunerazione in British Petroleum
– In Germania, Volkswagen è stata sottoposta ad attacco da parte di TCI a causa dell’eccessiva remunerazione percepita dai membri del Consiglio di Gestione, nonostante lo scandalo delle emissioni.

Ovviamente le società elencate rappresentano un piccolo ma significativo campione, attraverso il quale è possibile comprendere la dimensione del tema e le aspettative prospettiche della comunità finanziaria anche nei confronti nostro paese, considerando l’evoluzione negli assetti proprietari occorsa degli ultimi anni.

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