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Le responsabilità di Banca d’Italia e della Consob, rispetto alla crisi del sistema bancario italiano, sono evidenti. Ma ancora maggiori sono quelle del Parlamento italiano, il cui controllo è solo intermittente. Si attiva cioè, come nel caso dell’ultimo decreto per Mps, solo quando i buoi sono fuggiti dalla stalla. Ed allora non resta che pagare, ponendo a carico del contribuente italiano, i relativi oneri. Gli esempi di questa opacità sono evidenti nei mille episodi che hanno caratterizzato gli avvenimenti più recenti: da Mps, alle quattro banche cedute all’UBI per il prezzo simbolico di 1 euro (Etruria, Banca Marche, Ferrara e Chieti), per terminare con le due banche venete. I casi emersi. Ma non è detto che non ve ne siano altri.

Ancora più disarmante è stata la disattenzione rispetto a fenomeni macro. Già nel 2012 il FMI, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, aveva lanciato un grido d’allarme. Gli incagli e le sofferenze – i cosiddetti “nonperforming loans” – avevano raggiunto un livello di guardia. Il loro valore era inferiore solo a quelli della Grecia e dell’Irlanda. C’era, quindi, di che preoccuparsi. Forse qualcuno l’ha fatto? Ci sono state indagini tempestive? Interrogazioni parlamentari? Richieste di spiegazioni? Comunicazioni spontanee dei vari Governi? Silenzio assoluto, come se si trattasse di un dato statistico irrilevante. E che dire della normativa sul bail-in? Vale a dire del coinvolgimento dei singoli risparmiatori nell’eventuale crisi della propria banca? L’adesione alle nuove regole europee non ha né un padre né una madre. La stessa Banca d’Italia, tardivamente, ha eccepito. Quando ormai non c’era più nulla da fare.

Questa lacuna, quindi, va colmata. E colmata al più presto, individuando in seno al Parlamento un organismo permanente che si occupi, in modo stabile, dei legami sistemici che sono alla base della fisiologia del credito e del risparmio. Può essere una Commissione parlamentare o un Comitato. Se abbiamo una Commissione sull’anagrafe tributaria. Forse, a maggior ragione, se ne dovrebbe avere una che si occupa, con compiti di vigilanza, sulla più importante infrastruttura produttiva del nostro Paese. Il tutto in ossequio all’articolo 47 della nostra Costituzione che tutela, in forma specifica, il risparmio nazionale. Affidando alla “Repubblica” il controllo del relativo “esercizio”. Finora così non è stato. E purtroppo i risultati si vedono.

C’è qualcosa di paradossale in questa scarsa attenzione. L’Italia – si sa – è un paese “bancocentrico”. A differenza di altri, il finanziamento dell’attività produttiva passa per l’80 o il 90 per cento per gli Istituti di credito. Un’anomalia: come molti sostengono. Ma questo è il prodotto di una storia complessiva. Può evolvere verso una maggiore modernità, ma i passi sono lenti e pieni d’insidie. Occorre pertanto presidiare un territorio che va anche oltre il funzionamento dei singoli istituti di credito. Ogni atto di politica economica finisce infatti per impattare con quel sistema. Ne determina le performance ed i risultati complessivi.

Prendiamo la politica edilizia. Dalla crisi degli immobili dipende circa il 40 per cento delle sofferenze bancarie. La politica d’austerità, voluta da Mario Monti, e solo in minima parte corretta dai successivi Governi, ha determinato il crollo di un settore, dal quale dipende circa il 20 per cento del Pil. L’eccesso di tassazione ha comportato una forte caduta della domanda. I prezzi degli immobili sono diminuiti di una percentuale variabile tra il 30 e il 50 per cento. Molte aziende di settore sono state costrette a chiudere i battenti, lasciando alle banche il cerino dei debiti contratti. A sua volta, il crollo del valore degli asset ha ridotto le garanzie, costringendo gli Istituti di credito ad aumentare il proprio patrimonio. La richiesta di aumenti di capitale, a sua volta, ha depresso i titoli in borsa, alimentando la caduta dei listini. Poteva la Banca d’Italia o la Consob occuparsi degli effetti indotti da una scelta politica, dimostratesi improvvida?

Altro elemento. Dalla crisi del 2007 e quella successiva del 2012 è derivata una destrutturazione del sistema industriale italiano, con una perdita di valore aggiunto di circa il 25 per cento. Da questo epicentro sono derivati impulsi negativi sempre ai danni degli istituti di credito, che hanno fatto lievitare ulteriormente incagli e sofferenze. C’è stato forse qualcuno che abbia messo a fuoco, nelle sedi istituzionali proprie, gli effetti indotti di quella politica economica. Oggi sono in molti a ritenere che forse, in quegli anni, sarebbe stato bene imitare la Spagna e chiedere l’intervento del Fondo salva Stati. Senno del poi, di cui sono piene le fosse. Ma il problema rimane. Se non si ha a disposizione un radar è difficile scandagliare l’orizzonte.

E veniamo ai manager. La Banca d’Italia è intervenuta più volte, comminando multe e sanzioni. Ma loro sono comunque rimasti al loro posto. Certo potevano intervenire gli stakeholder, ma le vedete le Fondazioni bancarie, con i loro legami collusivi con il management, prendere posizione? Il caso Fiorani rimane una pietra miliare nei rapporti tra quel mondo, la Banca d’Italia ed il nulla istituzionale circostante. Ecco allora che il Parlamento, una volta tirato in ballo, non può limitarsi solo al ruolo di ufficiale pagatore. Aumentare di 20 miliardi il debito pubblico italiano, dopo il via libera della Commissione europea concesso anche per far distogliere l’attenzione da Deutsche Bank, sarà inevitabile. Ma che si prenda di petto la vistosa anomalia che accompagna questa mancanza di vigilanza sistemica. E si provveda. Magari nel corso dei lavori che dovranno caratterizzare l’annunciata Commissione d’inchiesta. Che non può essere solo una resa dei conti tra le diverse forze politiche italiane.

Pier Carlo Padoan

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