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“Se la legge resterà così, non ci sono dubbi: nessuno aderirà all’anticipo volontario”. Alla fine del vertice governo-sindacati di martedì, un protagonista della trattativa si esprimeva in questi termini.

Francesco Boccia, presidente della commissione bilancio della Camera ed esponente Pd, ha rincarato la dose: c’è il rischio che l’anticipo della pensione faccia la fine del Tfr in busta paga: un flop per costi troppo alti.

Il riferimento è a una categoria particolare tra quelle coinvolte dall’Ape, l’anticipo pensionistico che permetterà di ritirarsi dal lavoro tre anni e sette mesi prima del tempo. È la categoria “lusso”, che poi corrisponde al prototipo individuato da Renzi. La nonna che vuole passare tre anni accanto ai nipoti. Lavoratore non appartenente alle categorie disagiate per le quali l’anticipo sarà sostanzialmente gratuito. Quelli che dovranno pagare carissimo il ritiro dal lavoro a 63 anni tondi tondi. Sicuramente dovranno restituire tutta la cifra anticipata. Giusto il principio, anche se balza agli occhi tanto rigore, quando sono ancora in circolazione i destinatari delle prestazioni generosissime e quasi gratuite degli anni passati.

Il sottosegretario Tommaso Nannicini si è tarato su questa cifra nei giorni scorsi: per un anno di anticipo, ha spiegato, si pagheranno 50-60 euro al mese per 20 anni. Per i tre anni, da 150 a 200 euro.

Peccato siano cifre al netto di due oneri totalmente a carico del pensionato: gli interessi sul prestito e l’assicurazione per l’eventualità del decesso prima dei 20 anni.

Considerando solo il primo onere, si scopre quanto l’anticipo sia un bene di lusso. Restando sull’esempio di Nannicini, una pensione ipotetica di mille euro (lavoratori non disagiati) l’anticipo di tre anni e 7 mesi sarà di 45mila euro. Ma la cifra da restituire è 57.234 euro. Sono 219 euro al mese. Ci sono 12mila euro di interessi, totalmente a carico del futuro pensionato. L’anticipo di un anno, sempre quello dell’esempio del sottosegretario alla presidenza, la rata mensile diventa di 73 euro. Per 12mila euro di prestito la cifra da restituire sarà di quasi 16mila euro.

Tutto questo se verrà confermato l’interesse al 3 per cento fisso. Probabile che per la categorie non protette il tasso salga fino al 6-7 per cento. In questo caso, sempre nel caso di una pensione di soli 1.000 euro, la cifra da restituire sarà di 22mila e 300 euro per un anno (13 mesi), con una rata mensile che sfiora i 90 euro. Per i 3,7 anni di anticipo (45 mesi considerando la tredicesima), 77mila euro, 32mila euro tutti in interessi, 320 euro al mese.

Cifre che raddoppiano per una pensione da 2mila euro e aumentano progressivamente per gli importi superiori. Con l’interesse al 6 per cento, la rata di chi ha chiesto tre anni di anticipo potrebbe salire a 616 euro mensili e la cifra restituita, a 154mila euro per 86mila euro di anticipo.

Possibile che alla fine la legge cambi ma, messa così, la versione “lusso” dell’Ape, è non è un affare per i pensionandi. Forse per le banche e le assicurazioni, che potranno concedere prestiti con interessi di tutto rispetto e a rischio zero. Per fare un paragone, la pensione anticipata di tre anni costa quanto un piccolo appartamento in provincia. Per un pensionato “d’oro” con un assegno superiore ai 2mila euro costerà quanto un monolocale in un quartiere semi periferico di Milano. Con la differenza che sui mutui si applicano ormai tassi fissi sotto il 2 per cento. Quello dell’Ape rischia di essere il triplo. La scelta per i nonni sarà tra 43 mesi di libertà e un bene da lasciare ai nipoti.

(Pubblicato su Il Giornale)

boccia

Ape, perché anticipare la pensione può essere un salasso

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