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Non foss’altro per gli sgambetti che gli stanno facendo nel suo stesso partito, il Pd, in un intreccio di correnti che la dice lunga sull’eredità non della migliore ma della peggiore Dc raccolta dai post-comunisti, il nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti mi ispira fiducia.

La sua conoscenza dei servizi segreti, per passate esperienze di governo, non guasta di certo per condurre bene la lotta al terrorismo e le trattative che sta conducendo con i pur pasticciati poteri prodotti dalle sciagurate primavere arabe. Non guastano neppure quel fisico asciutto, sempre abbronzato, e quella totale assenza di capelli che ne fanno uno 007 sempre in azione: altro che uno “sceriffo”, come lo sfottono gli avversari e i critici, che purtroppo –ripeto- stanno più in casa che fuori, a cominciare dal suo ex capocorrente Massimo D’Alema.

Eppure il povero Minniti da solo non ce la può fare se scopriamo dalla mattina alla sera che nei luoghi dove più frequentemente può avvenire l’arruolamento dei terroristi islamici, le carceri piene di immigrati, accade che un egiziano possa indottrinare e infine convertire alla milizia armata uno spacciatore tunisino finito dentro per tentato omicidio, che già di suo deve essere apparso al suo maestro un eccellente biglietto da visita, parlandogli liberamente nelle ore d’aria o altrove. Nessuna guardia ha avuto modo non credo di sentire, perché la sordità dovrebbe precluderle il mestiere che fa, ma di capire quello che i due si dicevano, essendo all’oscuro evidentemente della loro lingua. Credevano che pregassimo, ha detto degli agenti il tunisino.

Mi chiedo se il ministro della Giustizia Andrea Orlando sia in grado di sapere dal capo del Dipartimento penitenziario e dirci quale sia la percentuale delle guardie carcerarie che conoscono l’arabo. Non vorrei che nei nostri luoghi di pena accadesse quello che una volta, per fortuna tanti anni fa, succedeva in Polizia, dove si lasciavano scippare dal giornalismo fior di agenti che conoscevano l’arabo, non considerando evidentemente questo requisito molto importante per invogliarli in qualche modo a restare. Ne ho conosciuto e conosco uno di quegli agenti, diventato anche un eccellente e preziosissimo inviato, da me sperimentato più volte: Franco Bucarelli. Che ora si gode la sua meritatissima pensione, al netto del terrorismo sociale che subisce da chi gliela vorrebbe tagliare scambiando l’oro di Bologna per oro vero. Come capita a tanti altri pensionati in Italia che non piacciono al presidente dell’Inps Tito Boeri.

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Da un’indagine Demos condotta per Repubblica, che l’ha molto reclamizzata, abbiamo appena scoperto che in un anno, dal 2015 al 2016, compreso quindi –vi spiegherò poi perché- il fatidico 4 dicembre scorso, quando è stata bocciata a furor di popolo la riforma costituzionale targata Matteo Renzi, la corruzione percepita dai cittadini è salita dal 42 al 44 per cento, la fiducia nelle istituzioni è scesa da 85 a 82, la fiducia negli altri da 63 a 33, la diffidenza verso gli immigrati salita da 28 a 40.

Sulla crescita della diffidenza verso gli immigrati, pur inferiore a quella verso il prossimo in genere, i conti sociali e politici non mi tornano.

Con quella enorme misura della bocciatura della riforma di Renzi, cioè con quei quasi venti punti di distanza dai no ai sì referendari, mi ero fatto l’idea che agli italiani la Costituzione in vigore dal lontano 1948, comprensiva delle micidiali, rovinose modifiche apportate nel tempo, come il nuovo articolo 68 sulle immunità parlamentari, tradottosi in uno strapotere delle Procure nei rapporti con la politica, o il nuovo titolo quinto sulle competenze regionali, che ha intasato di ricorsi la Corte Costituzionale e fatto salire a dismisura la spesa pubblica, piacesse un mondo. Guai a ritoccarla ancora. Mi era sembrato di capire insomma che gli italiani avessero dato ragione a Pier Luigi Bersani, ispiratore del primo Roberto Benigni, quando sui palcoscenici d’Italia e davanti alle telecamere il comico toscano recitava la Costituzione “più bella del mondo”, prima che Renzi gli facesse venire qualche dubbio e gli procurasse l’accusa di traditore, venduto e simili.

Ebbene, c’è un articolo di questa Costituzione, il decimo, peraltro immune dalle modifiche tentate dall’ex presidente del Consiglio, che al terzo dei suoi quattro capoversi, detti tecnicamente commi, dice testualmente: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzionale italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Pertanto l’aumento della diffidenza verso l’immigrazione, o gli immigrati, è sintomo quanto meno di ignoranza della Costituzione italiana, pur così vigorosamente difesa da 19 milioni e rotti di elettori nel referendum del mese scorso. Diciannove milioni e rotti di analfabeti, quindi, sul versante costituzionale.

Che fuggano o no dalle guerre, gli immigrati non vengono certamente da paesi dove potevano godere dei diritti riconosciuti a noi dalla Costituzione.

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Francesco Verderami sul Corriere della Sera ci ha appena informati che Matteo Renzi, nel frattempo rientrato a casa dalle brevi vacanze dolomitiche, è tornato a chiamare per nome –Paolo- il successore da lui stesso voluto a Palazzo Chigi- Gentiloni Silverj- smettendo di chiamarlo “conte”, con aria più sfottente che da ufficiale d’anagrafe.

In verità, non mi ero accorto della licenza di sfottò presasi dall’ex presidente del Consiglio. Ma se lo scrive Verderami, debbo credergli, salvo smentite, che lui di solito archivia sbrigativamente garantendo di avere “buone fonti”.

Ora comunque che Renzi è tornato a chiamare Paolo il successore e si accinge a riaprire il suo ufficio romano al Nazareno per dare una scossa al partito con tutti i cambiamenti e le conferenze più o meno programmatiche preannunciate prima di Natale all’Assemblea Nazionale, dovremmo prepararci ai fuochi d’artificio. Che spero sufficienti –per lui- a far correre via dalla sede del Pd la famosa mucca della cui presenza si è lamentato per tanto tempo il solito Bersani in tutti i salotti televisivi che l’ospitavano prima delle feste.

Perché Marco Minniti ispira fiducia

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