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Per guadagnare un posto, per sempre, nella storia del cinema e nella memoria degli spettatori di ogni generazione (qualcuno usa il termine iperbolico “immortale”) bastano pochi film. Come le filmografie in due righe di Jean Vigo, Andrej Munk o Wilhelm F. Murnau.

Se poi sei davanti a una macchina da presa e hai solo un film per entrare nel regno della memoria filmica, allora puoi essere un bambino e chiamarti Jackie Coogan (The Kid, 1921, Charlie Chaplin) o Enzo Stajola (Ladri di bicilette, 1948, Vittorio De Sica). O se sei adulto e sconosciuto come Lamberto Maggiorani (ancora Ladri di bicilette) diventi addirittura l’icona del neorealismo italiano nel mondo. Se poi sei una semplice adolescente brunetta, di un paese dell’Est, oltre la cortina di ferro, e ti trovi su una barchetta sulla Moldava e ti chiami Pavla Martinková (L’asso di picche, 1963, Miloš Forman), sarai anche tu nell’olimpo della settima arte.

Qualora nella tua carriera girassi diversi film, ma il primo come protagonista è semplicemente sconvolgente, innovativo, dal ritmico filmico da secondo millennio, uscito nel 1956, e reciti come solo poche lo hanno fatto prima di te, e ti chiami Brigitte Bardot, un film scritto e diretto da tuo marito che ha fatto di te non solo una grande attrice, ma, pochi lo hanno notato, ha realizzato il primo film da contro il maschilismo (o se preferite, “femminista”), allora sei finita dentro un capolavoro.

E Dieu créa la femme (1956. Roger Vadim), non si può raccontare, va ri-visto, scena per scena. Osservate le diverse espressioni, reazioni, interpretazioni di Bardot: siamo sul piano di una Anna Magnani di una Marylin Monroe. Ma mentre in Marylin non c’è il tormento esistenzialista qui, nella Francia che si prepara agli anni Sessanta, alla rivoluzione di Algeria, la Francia che è il cuore della riflessione filosofica del mondo, tutto il vissuto di un popolo arriva sul bel volto, allegro e triste, sorridente e imbronciato, della ventenne Brigitte Bardot.

Possiamo riassumere, per chi non lo ha visto, solo il tema principale: imparare ad amare quando non si può amare colui che vorremmo amare. Ponete questo enorme peso su una orfana minorenne, bellissima, in un paese sulla Costa Azzurra (per gli esterni siamo nella parte vecchia di Saint Tropez, prima del selvaggio turismo anni Sessanta-Settanta).

Una ragazza che crede, come tutte le ragazze, nell’amore sincero dei ragazzi. Ma si innamora di quello che vuole solo divertirsi, Eric, e poi è costretta a sposare uno cui vuole bene (il fratello di Eric, Michel) … e dovrà far sbiadire il primo amore chiedendo a forza, al neo-sposo “dimmi che mi ami, che hai bisogno di me!” per scacciare il vecchio tormento del cuore e dei sensi.

Piace a troppi è anche un viaggio di formazione. Più anni passano e più cresce il valore del film sul piano storico, sociologico, psicologico, e dei costumi: i pre-giudizi del vicinato (descritti con una verità documentaria sconcertante), il maschilismo imperante, mai edulcorato; la donna vista da alcuni come oggetto (ma Juliette rifiuta tale ruolo con la sua intelligenza e voglia di vivere), rendono il racconto attualissimo.

Bardot non ha un attimo di esitazione: tutte le scene sono perfette. Ride, ama, piange, balla, è pensierosa. Una bravura rara nel passare da un genere all’altro all’interno nello stesso film: solo Marylin Monroe, Anna Magnani e Claudia Cardinale ne erano all’altezza.

Osservate i suoi occhi imbronciati e delusi quando nel bagno delle donne, nella balera, sente Eric – di cui è follemente innamorata, con cui ha ballato, che lei ha baciato sulla bocca, appassionatamente, davanti a tutti, lui che le ha promesso di portarla con sé a vivere in città – dire la seguente frase a un suo amico: “Juliette, è bella, ma è per una notte. Io debbo sposare la figlia dal mio principale a Tolone”. E i due ragazzi ridono. La terribile frase e le risate cadono senza pietà sui suoi occhi blu, pietrificarti, di cristallo.

Guardate il primissimo piano con i lunghi capelli biondi, agitati dal vento, quando la corriera con Eric passa oltre e lui non l’ha fatta fermare per farla salire, come promesso in balera la sera prima: un volto di travertino su cui si schiantano i capelli sbattuti come canne al vento.

Infine, il famoso ballo della scena finale. Delusa e triste per quello che ha fatto (è stata con Eric), va al “Bar des amis”, frequentato, come dicono gli uomini del paese, “dalle prostitute” (ma non ne vediamo alcuna). Juliette ha bevuto due doppi whiskey, Ha sentito della musica nel piano sottostante, dove vi è la pista da ballo, con i tavoli e le sedie.

Una orchestrina di musicisti afroamericani sta provando dei pezzi. Juliette si avvina lentamente e inizia a ballare. Pian piano il ballo diventa vertiginoso, dionisiaco. I ragazzi di colore la accompagnano e uno di loro balla con lei. La gonna è aperta sul body nero. La camera di Vadim inquadra le sue belle gambe e le cosce.

Ora è davanti a uno specchio. Sembra chiedersi: chi sono io? Sale sul tavolo e la danza diventa ancora più bacchica… Vadim opta per un montaggio cortissimo, di dettagli: tacchi, gambe, cosce di lei, strumenti musicali, mani, scarpe di uomini… un crescendo forsennato. È un omaggio al cinema d’avanguardia di Abel Gance e Jean Vigo. Siamo ad un passo dal finale quasi drammatico…

Brigitte Bardot (Parigi, 28 settembre 1934), figlia della media borghesia, dall’infanzia e adolescenza turbata da momenti di tristezza dovuti alla durezza della madre (preferiva la sorella), riesce grazie alla sua viva intelligenza, al suo viso delicato, ad ottenere un servizio fotografico dedicato agli adolescenti (per un attacco di bontà di sua madre), su “Elle”. Da lì viene notata e inizierà più tardi a recitare.

La ragazza moderna e ribelle, simbolo del cambiamento generazionale del dopoguerra (come James Dean nel cinema americano), girerà altri notevoli film, mettendo in atto le sue ottime qualità recitative, dal film psicologico-drammatico alla commedia, diretta da diversi registi: con Henry George Clouzot (La verité/ La verità, 1960); con Roger Vadim (A briglia sciolta /La bride sur le cou, 1961; con Louis Malle (Vita privata /Vie privée); con Jean-Luc Godard (Il disprezzo/  Le mépris, 1963), e con altri bravi registi.

Ma tutti noi la ricordiamo, con quel broncio poetico che si porta dall’infanzia, immortalato (qui lo usiamo il termine) di Piace a troppi. Un autentico capolavoro in difesa della libertà e della donna.

 

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L’attrice francese, ha dimostrato capacità recitative al pari di Marylin Monroe, Anna Magnani e Claudia Cardinale. Rivediamola attraverso il capolavoro “Piace a troppi (1956)” che è anche un viaggio di formazione. Più anni passano e più cresce il valore del film sul piano storico, sociologico, psicologico, e dei costumi: i pre-giudizi del vicinato (descritti con una verità documentaria sconcertante), il maschilismo imperante, mai edulcorato; la donna vista da alcuni come oggetto (ma Juliette rifiuta tale ruolo con la sua intelligenza e voglia di vivere), rendono il racconto attualissimo. La lettura di Ciccotti

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