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Il referendum costituzionale sta occupando nel dibattito politico un ruolo non riducibile ai suoi contenuti reali: di fatto viene identificato con un voto di fiducia o sfiducia al governo Renzi. Per questa ragione si prescinde spesso dal merito della legge sottoposta al voto popolare, salvo diffondere allarmi di vera e propria emergenza democratica. I contenuti specifici della riforma possono e debbono essere oggetto di un dibattito aperto che non ne nasconda i limiti e le contraddizioni. Sarebbe stato forse più lineare abolire la seconda camera o cogliere l’occasione per il superamento delle regioni a statuto speciale e la riorganizzazione e restituzione di competenze agli enti locali, così come la legge elettorale avrebbe potuto lasciare un ampio spazio ai  collegi uninominali, ma la domanda fondamentale è : il contesto politico istituzionale è così compromesso, come sostengono i sostenitori del No, da richiamare alla memoria i tempi più oscuri per la nostra democrazia?

Con il dovuto rispetto di tutte le opinioni, non riteniamo che la legge elettorale approvata dal Parlamento  possa produrre gli effetti della Legge Acerbo del 1923 nè che il nostro Paese corra oggi il rischio di avventure autoritarie. Tantomeno ci pare ragionevole alimentare una contrapposizione così esasperata con lo scopo, in sé del tutto legittimo, di cambiare il presidente del Consiglio.

E’ chiaro tuttavia che, anche a causa della debolezza del dibattito politico e culturale e della povertà di proposte programmatiche alternative convincenti, le conseguenze del voto referendario sul quadro politico, condizionato dalle forzature e strumentalizzazioni messe in campo, vanno tenute in debita considerazione e non ci si può illudere che si tratti semplicemente di un misurato confronto tra  dottrine costituzionali.

Tuttavia chi opera sul terreno della produzione e del lavoro ha un interesse diretto al merito del quesito referendario. La legge affronta nodi del dettato costituzionale che hanno effetti diretti sull’economia.

E’ noto infatti che tra gli ostacoli alla crescita economica del Paese vi sia tutta una serie di questioni riconducibili all’architettura istituzionale che trovano  fondamento e legittimazione nella Costituzione. Tra queste la lentezza, la ripetitività e l’incertezza del processo legislativo, causata principalmente dal sistema del bicameralismo perfetto che da un lato provoca un andirivieni da una Camera all’altra di progetti e disegni di legge, e dall’altra istituisce nei fatti un forte potere di veto e di scambio che non sempre avviene alla luce del sole. Questa è, tra l’altro, la ragione per cui le riforme più importanti, per loro natura “divisive”, spesso vengono accantonate e lobbies, anche piccole ma agguerrite,  riescono ad impedire l’approvazione di provvedimenti da esse osteggiati.

In materia di lavoro occorre riprendere una riflessione sull’attuazione delle norme costituzionali (anche tenendo in considerazione la legislazione e la giurisprudenza che si è venuta via via stratificando) degli articoli 36, 39, 40 e 46 della Costituzione, con la conseguente confusione e incertezza in ordine a diritti di rappresentanza, titolarità negoziali, campo di validità degli accordi collettivi e garanzie in ordine all’erogazione dei servizi essenziali.

Così come la frammentazione delle competenze tra stato, regioni ed enti locali produce, anziché una sana sussidiarietà, un labirinto procedurale e normativo che genera un concreto e diffuso diritto di veto, sostanziale o di fatto, tale da rendere lunghissimi i tempi di decisione e attuazione in materia di lavori pubblici, energia, turismo, trasporto.

La fine del bicameralismo perfetto, i limiti alla decretazione d’urgenza ma contestualmente i tempi certi per il voto parlamentare sulle iniziative governative, l’estensione degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Riforma producono un sistema di contrappesi finalizzato all’assumere decisioni, e non a impedirle, una tempistica certa nei processi decisionali e quindi un clima più favorevole all’economia.

La modifica del titolo V parte dalla constatazione che la confusione nelle competenze tra istituzioni ha determinato continui contenziosi su  questioni che hanno un alto tasso di opinabilità interpretativa, con ricorsi continui alla Corte Costituzionale, al Consiglio di Stato e ai Tar. La soppressione della legislazione concorrente serve a razionalizzare in un’ottica duale il riparto delle materie. Dare certezze sulla normativa in vigore, produce effetti economici diretti perché porta prevedibilità e stabilità nelle decisioni pubbliche.

Del resto la riforma del titolo V, che lascia alle Regioni la potestà in materia di servizi sanitari e sociali, e prevede la possibilità di attribuire forme di autonomia su materie quali le politiche attive del lavoro, consente di salvaguardare quanto di positivo hanno prodotto le autonomie regionali.

Peraltro il testo sottoposto al giudizio degli elettori non è risolutivo di tutti i problemi aperti e con tutta probabilità richiederà ulteriori interventi di manutenzione e di adeguamento dell’impianto costituzionale. Sarebbe auspicabile che ciò avvenisse in un contesto  caratterizzato da strategie di ampio respiro e non da scelte tattiche che spesso hanno caratterizzato il processo di revisione della Carta Costituzionale. La ragione del nostro Sì sta nella necessità di giungere ad un primo risultato dopo decenni di iniziative e di confronti che avevano come obiettivo la riforma costituzionale. Nello stesso tempo, proprio perchè rispettiamo le  opinione diverse che sono in campo, ci rivolgiamo alle  le fondazioni politiche e culturali che hanno le proprie radici nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali al fine di promuovere un momento di confronto e di riflessione su questa materia con l’obiettivo di mettere a fuoco e valorizzare i rapporti tra riforma costituzionale e riformismo nel lavoro e nell’economia.

Maria Elena Boschi

Perché diciamo Sì al referendum sulla Costituzione. Firmato: Fondazione Kuliscioff

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