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È plausibile che lo Stato islamico abbia la capacità di organizzare un grande attacco anche in Europa centrale? È questa la domanda che il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, riunito al Viminale questa mattina, e tutte le istituzioni inter-agenzia simili dell’Ue e del Regno Unito si stanno ponendo adesso. Dopo l’attentato di Mosca, lo Stato islamico ha dimostrato che la capacità organizzativa del gruppo è ancora buona, anche grazie a una nuova spinta sul proselitismo conseguenza anche della caoticizzazione violenta di diversi dossier internazionali.

Al Crocus City Hall, i seguaci della visione califfale predicata dal defunto leader ispiratore Abu Bakr al Baghdadi (da qui baghdadisti) hanno messo in scena il più importante attacco terroristico dai tempi della strage del Bataclan del novembre 2015. Ma attacchi minori, per quanto anche consistenti, sono una costante in Afghanistan o nel Sahel. Però l’azione moscovita assume rilevanza non solo per il danno prodotto — comunque altissimo, con oltre 140 morti e diversi feriti ancora in gravi condizioni — ma perché l’attacco è avvenuto in un Paese il cui sistema di sicurezza è ben organizzato e ossessivamente vocato al controllo dei cittadini.

Se lo Stato che controlla tutte le comunicazioni internet attraverso un sofisticato incrocio di dati (gestito dal software noto come Sorm) — e dove non viene permesso ai manifestanti che si oppongono al regime putiniano di esporre in pubblico un foglio bianco — non è riuscito a intercettare l’organizzazione di un attacco così devastante, allora significa che l’IS è tornato alle capacità logistiche (fisiche e digitali) di una decina di anni fa?

“Non lo sappiamo con esattezza”, spiega una fonte informata che preferisce restare anonima: “Dieci anni fa, l’IS ci aveva sorpreso per la capacità di creare network composti da miliziani addestrati e singoli individui ispirati. Da quel momento abbiamo iniziato a dargli la caccia, e ha funzionato: ma anche in un Paese iper controllato come la Russia, qualcosa può sfuggire, anche perché, e questo vale la pena ricordarlo, un conto è mandare un poliziotto ad arrestare un oppositore che pubblicamente compie un gesto contro il Cremlino, un altro è scovare l’organizzazione di un attacco che magari va avanti da mesi se non da anni. Non sottovalutiamo che lo Stato islamico è opportunistico: attende con pazienza il momento di agire, e lo fa perché la sua azione è trascendente, per certi versi ha un’intera esistenza per organizzarsi, ma non dimentica mai i suoi nemici. Per questo non dobbiamo dimenticarci noi di lui”.

Perché la Russia è nel mirino

Da quando la Russia è formalmente entrata in guerra in Siria — per proteggere il regime amico anche dalle conquiste dello Stato islamico — è stata colpita più volte da attentati di organizzazione o ispirazione baghdadista. Mosca non è scesa sul campo di battaglia siriano per combattere direttamente l’IS, come fatto dalla Coalizione internazionale a guida occidentale (che ancora porta avanti operazioni mirate, nonostante abbia obliterato la dimensione statuale del Califfato nel Siraq). La Russia ha combattuto per salvare il regime assadista amico dalla debacle contro i ribelli, ma nel farlo ha anche a volte combattuto i baghdadisti — come nel caso della battaglia simbolica di Palmyra, o degli scontri attorno al centro petrolifero di Deir Ezzor, che erano anche mosse ibride contro gli americani.

Da tempo il movimento jihadista globale considera la Russia un nemico del popolo musulmano tanto quanto gli Stati Uniti. Per capirci, nella rivendicazione dell’attacco del 22 marzo, l’IS ha affermato: “Facciamo sapere alla Russia crociata e ai suoi alleati che i mujaheddin non dimenticano di vendicarsi”. Già nel primo discorso dopo la dichiarazione del califfato dello Stato Islamico (giugno 2014), Baghdadi parlando dei nemici diceva “gli ebrei, i crociati [e] i loro alleati” e li definiva “guidati dall’America e dalla Russia e mobilitati dagli ebrei”.

Non a caso, la Russia ha recentemente riferito di aver sventato un attacco a Mosca da parte dell’ISKP, il potente network afghano dell’IS (probabilmente responsabile anche dal blitz al Crocus). Mosca sa di essere nel mirino, al di là della narrazione con cui il Cremlino incolpa fantomatici nemici internazionali — Ucraina, Usa, Nato fino all’Italia. Lo sa anche perché ha intavolato (da tempo, anche in chiave anti-Usa) una discussione pragmatica e opportunistica con i Talebani, che sono i nemici numero uno dell’ISKP. Ora, come detto, in mano alla presidenza russa c’è parte della sicurezza collettiva, che dipende dalla gestione tra questa (finanche comprensibile) reazione cospirazionista e la responsabilità della lotta al terrorismo internazionale. Perché sebbene le ostilità in corso, il counter-terrorism è (come è sempre stato in epoca recente) un tema comune, su cui c’è da anni un livello di cooperazione di intelligence se non schietto, funzionale.

Rinascita terroristica guidata da ISKP

Anche perché il problema esiste. Lo scorso anno, in una testimonianza davanti al Congresso, il generale quattro stelle Michael Kurilla, capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, avvertiva già che l’IS-Khorasan (IS-K o ISKP), sarebbe stato in grado di eseguire “operazioni esterne contro gli Stati Uniti o gli interessi occidentali all’estero in meno di sei mesi con poco o nessun preavviso”. Nel gennaio 2023, la direttrice del Centro nazionale antiterrorismo, Christine Abizaid, rilanciava spiegando al Congresso che ISKP era “l’attore della minaccia [terroristica] che più mi preoccupa. Vediamo indicazioni preoccupanti in Afghanistan e sulle sue ambizioni che potrebbero andare oltre quel territorio immediato”.

La pericolosità del gruppo si è manifestata chiaramente a gennaio, in occasione del doppio attacco suicida che ha prodotto 84 vittime a Kerman, in Iran, durante le commemorazioni per il quarto anniversario della morte di Qassem Soleiman, leader della Forza Quds. Come nel caso di Mosca, l’attentato era stato rivendicato dall’IS indicare la provincia autrice (un modo per proteggere il network e creare confusione tattica, spiegava Riccardo Valle del The Khorasan Diary), ma poi l’Iran — dopo una prima fase cospirazionista simile a quella attuale del Cremlino — aveva diffuso alcune informazioni raccolte sugli autori attraverso i media locali.

Gli Stati Uniti avevano fornito avvisi preventivi sia all’Iran che alla Russia riguardo la possibilità di un attacco terroristico imminente. Queste indicazioni sono frutto di attività di intelligence che è possibile vengono raccolte direttamente in Afghanistan, condivise secondo la norma internazionale anti-terrorismo “duty to warn”, che serve alla tutela di quella sicurezza collettiva.

Secondo l’analisi fatta lo scorso anno dal Team di monitoraggio delle Nazioni Unite, ISKP ha adottato un sistema a rete al posto della precedente struttura verticistica. Possibile che questo abbia dato al gruppo una maggiore flessibilità e forza, ottenute anche sfruttando “l’incapacità dei Talebani di stabilire il controllo su aree remote, nonché l’insoddisfazione per il dominio talebano a proprio vantaggio”. Il numero di combattenti indottrinati e attivi è stato stimato tra le 4.000 e le 6.000 persone provenienti non solo dall’Afghanistan e dal Pakistan, ma anche dall’Azerbaigian, dall’Iran, dalla Turchia, dalla Russia (Ceceni e Inguscezia) e soprattutto — come emerso dalle informazioni diffuse dal Cremlino adesso e da altre uscite nell’ultimo anno — dal Tagikistan (dove la popolazione è per il 96,7% musulmana, in maggioranza sunnita) e da diversi Paesi dell’Asia centrale.

Ossia, si tratta già di un network internazionale, diffuso (almeno a livello di predicazione) anche in Europa. Questo significa che ancora adesso “i terroristi possono plausibilmente attaccare ovunque, in qualsiasi momento di loro scelta, usando qualsiasi tattica e arma possiedano”, come valuta un’analisi del Council on Foreign Relations uscita dopo l’attacco in Russia. “È impossibile per i governi, anche con un adeguato preavviso, difendere ogni bersaglio, ovunque in una città, tanto meno un Paese da ogni possibile tipo di attacco”.

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