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Beppe Sala aveva più di una chance di vittoria: gli è estranea anche culturalmente la dimensione della politica ed è quindi in grande sintonia con l’attuale clima dell’Italia, aveva fatto un buon lavoro – al netto di una certa mancanza di trasparenza – nel gestire l’Expo e i milanesi gli erano grati, in quest’ultima esperienza aveva avuto anche “i mezzi” per farsi un sacco di “amici” e questo ha pesato nel momento iniziale della campagna elettorale, era il candidato di parte rilevante dell’establishment milanese, aveva nella sua disponibilità la carta Renzi sia come promessa di investimenti confermata dai tanti ministri che hanno scorrazzato in città fino al 5 giugno, sia nell’agitare la minaccia del salto nel buio in caso di indebolimento di un presidente del Consiglio a cui diversi settori anche della borghesia nazionale non vedono alternative. Aveva poi, pure, un pugno di assessori della giunta Pisapia in ostaggio: il che era solo parzialmente un vantaggio perché molti tra questi sono poco popolari in città.

Alla fine tutti questi vantaggi posizionali non gli hanno portato che un 42 per cento di voti (- 5 per cento rispetto al risultato di Giuliano Pisapia al primo turno del 2011, e anche centomila voti in carne e ossa in meno), un vantaggio di circa un punto sullo sfidante Parisi (persona relativamente poco conosciuta in città e con almeno la metà delle risorse finanziarie elettorali dell’ex dirigente Pirelli) e soprattutto un isolamento politico che a occhio pagherà nel ballottaggio. Perché? Non ha avuto un vero appoggio da Pisapia che lo detesta per come ha fatto fuori la sua delfina Francesca Balzani: Sala ha tenuto in gioco Pierfrancesco Majorino promettendogli di fare il vicesindaco e rompendo così l’area radicale del centrosinistra. E’ disprezzato dalla sinistra-sinistra: Sergio Cofferati è quello che lo ha più perfettamente sbeffeggiato dicendo che gli piace chi passa da destra a sinistra ma chi lo fa dovrebbe spiegare come questo passaggio è avvenuto, e non essere del tutto opaco come è stato Sala. Non poteva (e non potrà) intercettare i suffragi anti-Renzi e l’antirenzismo è stata una delle componenti fondamentali del voto del 5 giugno.

E ora dopo il voto del 5 giugno la parte moderata della città sta incominciando a trattare con Stefano Parisi, non solo perché probabile vincitore ma anche perché è persona con cui è possibile discutere di strategie e non solo di “come sono stato bravo a fare l’Expo”.

Alla fine, di fatto, questo noiosissimo refrain salesco (“come sono stato bravo a fare l’Expo”) è diventato controproducente: ha fatto sì che l’unica sua caratterizzazione diventasse quella dell’esecutore. Se c’è una Letizia Moratti che si inventa una cosa come l’Expo, Sala poi sarà bravissimo a tirare su i capannoni dove farla e a organizzare le appropriate code. Però i milanesi hanno iniziato a chiedersi durante la campagna elettorale, anche a causa dell’esagerazione salesca ad autolodarsi, se serva un sindaco meramente esecutore. E, in particolare, a domandarsi: esecutore di chi, poi? Di Pisapia che dice che l’unica garanzia sarà la sua squadra? Ma si è visto anche dal voto della lista arancione, quanto l’appoggio dell’ex sindaco sia in realtà scarso.

Escluso dunque Pisapia. L’unico di cui un Sala, privo di autonoma visione politico-amministrativa e dedito solo all’autoesaltazione delle proprie capacità di esecutore, poteva eseguire i progetti era restato Matteo Renzi, che infatti prima lo ha messo nel consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti per assicurargli una protezione, poi lo ha candidato alle primarie (cosa avvenuta un po’ inelegantemente nella prefettura di corso Monforte) chiedendo insieme ai renziani milanesi di preparare la trappola Majorino contro la Balzani, e infine gli ha mandato quella decina di ministri di cui si è detto, a tenergli su la campagna elettorale e a promettere la qualunque per farlo vincere: vi daremo 100, 1000, 10000 vigili, avrete il vertice del G8, i campionati di scacchi della Galassia, trasferiremo il Cern di Ginevra nell’area ex Expo e così via.

Ma quest’uso della carta Renzi alla fine si è rilevato sostanzialmente controproducente. La parte centrale della città non vuole un’amministrazione subalterna al governo centrale. Naturalmente è necessario collaborare con Palazzo Chigi. Milano non può astrarsi dal quadro nazionale. Ma essere subalterni a Roma al di là delle questioni ideali significa poi vedersi sommergere di tasse (e multe a integrare la ricerca di soldi dei cittadini) come è successo con Pisapia. Ha significato e significa non contare niente e finire per farsi rifilare bufale come la legge Del Rio sulle città metropolitane con altri costi per i cittadini milanesi.

Non bisogna scordarsi, poi, che una parte di coloro che apprezzano certe mosse di Renzi preferiscono assicurarsi contro i comportamenti talvolta prepotenti dell’ex sindaco di Firenze, e quindi vedono l’opportunità di una persona di qualità come Parisi anche come freno a certe arroganze palazzochigesche.

Nelle ultime giornate della campagna elettorale, Sala ha cercato persino di presentarsi come esecutore dei progetti di Parisi. Quest’ultimo chiedeva la presenza dei militari nei quartieri insicuri, e Sala prima lo criticava e poi diceva: anch’io li voglio; Parisi spiegava che bisognava tagliare le tasse e Sala diceva: anch’io lo voglio; e così sulle multe, la digitalizzazione dell’amministrazione comunale e altro ancora. Addirittura nei rapporti con l’estrema destra: un giorno criticava la mollezza di Parisi verso un candidato di estrema destra in una zona milanese da parte della Lega, il giorno dopo partecipava a un dibattito con un candidato sindaco appoggiato da Casa Pound nella speranza di far perdere “a destra” uno zero virgola al suo avversario.

Insomma se la politica ha ancora regole leggibili, il “bravo esecutore” Sala appare destinato alla sconfitta nel ballottaggio del 19 giugno.

GIUSEPPE SALA, beppe sala

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