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Più cercano di smarcarsi dalla “personalizzazione” del referendum costituzionale, lamentata anche dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano,  pur schieratissimo sul fronte del sì ma consapevole del rischio che la prova referendaria si risolva in un plebiscito contro il presidente del Consiglio, più i renziani s’incartano nell’errore, ormai evidente, di avere minacciato la crisi di governo in caso di sconfitta.

Matteo Renzi in persona è appena intervenuto assicurando di voler vincere il referendum per il buon contenuto della riforma e non per la “paura” che i suoi avversari lo accusano di procurare agli elettori con l’annuncio di una crisi, appunto, in caso di sconfitta. E del vuoto che si creerebbe nel Paese per l’ingovernabilità che ne deriverebbe, per non parlare dello spazio che guadagnerebbero gli speculatori alle prese nei mercati con i titoli del debito pubblico italiano.

Mentre il presidente del Consiglio ha cercato di allontanare da sé il sospetto di volere impaurire gli elettori per strappare alla riforma costituzionale un consenso che non meriterebbe, funzionale solo ai suoi disegni di potere, la sua ministra di fiducia Maria Elena Boschi però è tornata a minacciare sfracelli in caso di vittoria referendaria del no.

In particolare, la ministra delle riforme, pur dicendo di non volere scambiare per un “voto di fiducia al governo” il referendum costituzionale, ha avvertito che “non possiamo nasconderci il fatto di cosa potrebbe accadere se vincesse il no”. Se non è zuppa, insomma, è pan bagnato.

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L’errore commesso da Renzi in questa storia della personalizzazione minacciosa del referendum costituzionale sta nei tempi scelti dal presidente del Consiglio per mettere sulla bilancia il peso di una crisi di governo. Lo ha fatto troppo presto, dando ai suoi critici e avversari la possibilità di allestire le difese, accusandolo di volere fare un uso improprio del passaggio referendario della riforma costituzionale. Un uso tanto improprio da avere messo a disagio il presidente della Repubblica, e da avere spinto il predecessore a raccomandare prudenza. E da avere dato alle minoranze del Pd l’occasione, o il pretesto, di gridare al golpe, o quasi, per cercare di ridurle alla resa.

Renzi ha fatto mancare alla sua strategia, o tattica, l’indispensabile elemento della sorpresa, per cui una crisi minacciata finisce per fare meno paura di quanta dovrebbe. Egli è rimasto un po’ vittima della sua inesperienza, o baldanza.

Vi è già stato a Palazzo Chigi qualcuno a politicizzare o personalizzare come più non si poteva un referendum. Fu Bettino Craxi nel 1985 col referendum abrogativo dei tagli apportati dal suo governo alla scala mobile dei salari per fermare la devastante corsa all’inflazione. Egli disse che si sarebbe dimesso da presidente del Consiglio “un minuto dopo” l’eventuale sconfitta referendaria.

Ma Craxi diede quell’annuncio all’ultimo momento, quattro giorni prima del voto, in una improvvisata conferenza stampa, non prim’ancora che la campagna referendaria cominciasse, come ha fatto invece Renzi. Gli avversari, esterni ma anche interni alla maggioranza, dove certo non ne mancavano, specie da parte dei democristiani di sinistra, non ebbero il tempo di organizzare alcuna contromisura contro il leader socialista. Così lo spettro della crisi risultò decisivo per il risultato del referendum, che confermò i tagli alla scala mobile così duramente contestati dai comunisti. I quali avrebbero irresponsabilmente preferito un’inflazione ancora a due cifre pur di liberarsi di Craxi.

L’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita si risparmiò, diciamo così, nella campagna referendaria prevedendo la sconfitta del governo, che pure era composto per una buona metà da ministri democristiani. Le sue previsioni si avverarono, ma nella natia Nusco, di cui egli è ora sindaco, alla sua bella età magnificamente portata.

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In realtà, l’unico modo per spersonalizzare o svelenire il referendum costituzionale, più che cercare di rinviarlo il più possibile, magari tentando di precederlo con le elezioni anticipate, come gli hanno suggerito gli amici del Foglio in funzione “anti-arrosticino “, sarebbe quello di eliminare il cosiddetto combinato disposto di riforma costituzionale e applicazione della nuova legge elettorale della Camera, nota come Italicum.

È un combinato disposto che ha appena spinto anche un estimatore di Renzi come l’editore di Repubblica Carlo De Benedetti a chiedere al presidente del Consiglio, in una intervista al Corriere della Sera, di cambiare l’Italicum. Che o gli darebbe troppo potere, con il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione più votata, o regalerebbe la vittoria, con uguale strapotere, ai grillini. Che hanno cominciato ad assaporarne il frutto nei Comuni di Roma e di Torino. Renzi – ha avvertito De Benedetti – potrebbe diventare “il Fassino d’Italia”, il sindaco torinese travolto dalla pentastellata Chiara Appendino.

In caso di mancata o non impegnativa promessa di cambiare la legge elettorale, anche De Benedetti, come il suo amico, editorialista e fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, si sentirebbe costretto a votare no nel referendum costituzionale. E a contribuire quindi alla chiusura del ciclo di Renzi come “elemento di cambiamento cinicamente violento ma utile al Paese”.

Un altro consiglio di Carlo De Benedetti a Renzi, non credo questa volta condiviso da Scalfari, è di puntare davvero i piedi in Europa, anche a costo di rompere con Bruxelles, ma soprattutto con Berlino, in difesa delle banche italiane e contro il vincolo del 3 per cento del deficit sul pil, tradottosi in una crisi economica insostenibile. Musica per le mie modestissime orecchie.

Matteo Renzi si sta un po' incartando su Italicum e referendum costituzionale

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