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Un’altra postazione dell’esercito indiano nello stato himalayano Jammu e Kashmir è finita sotto attacco armato, durante la notte di domenica 2 ottobre. I media locali hanno riferito che c’è stato un conflitto a fuoco vicino al 46° Rashtriya Rifles Camp, nella città di Baramulla (parte occidentale del J&K, come la passione per gli acronimi degli inglesi definisce questi territori contesi). Almeno sei presunti terroristi hanno sparato e lanciato bombe a mano contro i soldati. Il bilancio è di un morto e un ferito tra i militari indiani: è stato un  “attacco suicida” dicono le autorità locali. Il secondo nel giro di due settimane: una vicenda che inasprisce i rapporti tra i due Paesi (atomici), in crisi diplomatica da anni. La questione del Kashmir, inteso come territorio geografico, divide da sempre Delhi e Islamabad. È un luogo strategico che adesso è controllato da Pakistan, India e Cina. I primi amministrano i territori del Nord ovest, gli indiani governano la parte centrale più popolosa, nota come Jammu e Kashmir, e ai cinesi sono stati ceduti dal Pakistan – alleato strategico-economico di Pechino – l’Aksai Chin e Shaksgam nel nord est.

Fonte: Guardian

L’ATTACCO DEL 18 SETTEMBRE E LA REAZIONE INDIANA

Tre giorni fa il governo indiano ha fatto sapere che alcuni team di unità d’élite dell’esercito, coperti dall’artiglieria, hanno attraversato il confine con il Pakistan, nell’area contesa a maggioranza musulmana, per andare a colpire una cellula terroristica che secondo le informazioni di intelligence ottenute da Nuova Delhi era pronta a infiltrarsi in territorio indiano per compiere attentati. Si è trattato di una reazione per l’attacco avvenuto il 18 settembre nella base militare di frontiera a Uri: 19 morti tra i border patrol indiani, azione transfrontaliera, nessun rivendico, anche se le modalità (quattro uomini infiltrati armati di mitragliatrici e granate) ricordano quelle del gruppo estremista deobandi Jaish-e-Mohammed. I miliziani del JeM hanno stretti rapporti con i talebani pakistani e al Qaeda e sono accusati di essere uno dei gruppi utilizzati dall’Isi, il famigerato servizio segreto di Islamabad, per compiere operazioni clandestine, come gli attacchi in India, appunto (altri sospettati, per profili comuni: Lashar-e-Taiba e il network Haqqani). Del tutto simili le due azioni degli ultimi giorni.

IL RAID INDIANO E LE REAZIONI

L’annuncio dell’operazione militare indiana, compiuta a cavallo della Loc (Line of control), la linea di frontiera de facto decisa dal 1949, è inusuale, il primo in decenni. Di solito quello che avviene a cavallo del confine è continuamente coperto da smentite e non prende mai la via ufficiale e per questo si sono sollevati i timori internazionali che la politica indiana potesse virare dalle azioni per isolare diplomaticamente Islamabad a quelle militari. Le dichiarazioni hanno alzato ulteriormente il livello di tensione, già critico da luglio — quando il comandante del gruppo separatista Hizbul Mujahideen è stato ucciso dalla polizia indiana — dopo che Delhi aveva imposto il coprifuoco in varie zone controllate.

L’ambasciatore degli Stati Uniti in India, Richard Verma, dopo il raid militare indiano aveva cancellato un impegno a Washington all’ultimo minuto per rientrare di corsa, giovedì mattina scorso, nella sua sede diplomatica; il portavoce del Pentagono non ha commentato se gli americani erano stati informati in precedenza dell’azione; il capo dell’esercito indiano aveva dichiarato, senza dettagli, che 25 inviati stranieri erano stati messi al corrente della missione; il governo indiano ha annunciato che non parteciperà a un vertice regionale ospitato dal Pakistan a novembre e ha fatto pressione perché altri stati amici, Butan, Bangladesh e Afghanistan, facciano altrettanto.

UNA STRADA VERSO IL NULLA

Il premier indiano Nerendra Modi ha detto che le operazioni militari chirurgiche a cavallo della Loc non sono una “nuova idea coraggiosa”, ma una reazione necessaria: Nuova Delhi non solo accusa il Pakistan di lasciare spazio ai miliziani jihadisti che compiono infiltrazioni terroristiche nel territorio indiano, ma anche di usarli come forze armate irregolari coperte dalla clandestinità. È una linea politica quella di Modi fa notare Quartz — la necessità di far sentire la popolazione protetta da contromisure militari — ma, continua il sito americano, “il problema inizia quando la leadership politica e militare [indiana] confonde modi e mezzi con i fini strategici”. Ossia, le azioni chirurgiche non sarebbero altro che l’aggiornamento moderno e senza danni collaterali (ossia, vittime civili) delle attività che procedo da dozzine di anni e che non hanno prodotto risultati positivi. Una strada verso il nulla, perché è dimostrato dalla storia che questo genere di strategia non ferma gli attacchi transfrontalieri dei miliziani islamisti pakistani (e nemmeno le eventuali collusioni di Islamabad), e non risolve l’annoso problema dei confini. L’aspetto interessante, secondo l’analisi di Quartz, è che la riapertura di un nuovo periodo di crisi dimostrerebbe l’incapacità dell’India di comportarsi da grande Paese, di affinare le proprie tecniche diplomatiche e operative in genere, “un problema che va al cuore dei processi di pianificazione” di Nuova Delhi, nonostante gli enormi investimenti nel settore Difesa e la volontà di muoversi come un’economia globale e una nazione forte. La principale preoccupazione internazionale sta nella possibilità che eventuali rappresaglie finiscano per diffondersi in giro per il mondo, con azioni terroristiche che potrebbero interessare obiettivi indiani all’interno di altri Paesi (per esempio, quelli occidentali, dove gli attacchi garantirebbero una maggior risonanza).

(Foto: Wikicommons)

Perché tra Pakistan e India è di nuovo crisi

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