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“All’aeroporto ci hanno chiesto una carta di credito per dimostrare che fossimo stati in Inghilterra in precedenza, per motivi di sicurezza hanno detto. Io dico che hanno visto il passaporto italiano e che venivamo dalla Spagna e… ci hanno trattato un po’ come clandestini, anche se abbiamo ancora tutto il diritto di entrare in Uk”. Alberto Spitilli ha 25 anni, da quasi un anno è emigrato nel Regno Unito da Pescara. Lavora a Oxford, nel cuore dell’Inghilterra e fa parte della schiera di 2500 infermieri italiani che dal 2012 hanno iniziato a trasferirsi in Inghilterra, alla ricerca di un futuro. La sua testimonianza è emblematica del panico che sembra diffondersi all’indomani del Brexit.

TRATTATI DA EXTRACOMUNITARI

Lo spauracchio di essere già extracomunitari corre più veloce del possibile cambiamento delle regole e capita che un impiegato troppo rigido faccia sentire un expat europeo già straniero nella terra in cui vive. Il sistema sanitario britannico fa conto su una forza lavoro con una grossa fetta di personale non britannico: il 40% tra medici e infermieri, prima per lo più filippini e indiani, ora anche europei. “Il sistema sanitario britannico rischia seriamente di implodere, visto che noi stranieri siamo moltissimi – aggiunge Alberto – se introducessero il permesso di soggiorno che per gli extracomunitari richiede di essere rinnovato ogni due anni al costo di duemila sterline, ci penserei due volte prima di restare qua. Anche se il nostro ruolo è molto valorizzato, il lavoro soddisfacente e pagato il giusto: qui possiamo usare realmente la nostra laurea. Ma deve valerne la pena”.

LONDRA, SETTIMA CITTÀ D’ITALIA

Per i nostri expat la Gran Bretagna che hanno amato e scelto come patria della libertà e delle opportunità oggi ha perpetrato un tradimento. “Non tira una bella aria – dice Eugenio Montesano, emigrato da Napoli nel 2010 per fare un corso di giornalismo internazionale alla City University e oggi editor di un magazine finanziario a Londra – suona strano per me: è un Regno meno Unito, una nazione meno moderna. Confusione, incredulità e anche delusione: questo è il mood tra colleghi. Pensavamo di vivere in un Paese diverso. E fino al giorno prima del voto abbiamo intervistato economisti e gestori e tutti escludevano che potesse vincere il Leave”. Ci sono 300mila italiani in Uk secondo il registro dell’Aire e si stima che altri 300mila non siano registrati, mentre in totale i cittadini dell’Ue che vivono in terra di Albione sono oltre tre milioni. Ovviamente Londra la fa da padrona e Londra si è in effetti distinta per la sua apertura al mondo esterno anche nella votazione del referendum. “Sarà sempre una città aperta a quelli come me – continua Eugenio – Ma certo che l’idea di dover chiedere un visto per avere la green card mi sembra assurda: non ho dormito la notte in cui venivano conteggiati i voti. Le ripercussioni per me? Pesantissime dal punto di vista personale. Il mio progetto era rientrare in Italia con il mio giornale che aveva un piano di espansione: ora temo possa essere messo in discussione. Le forti imposizioni fiscali per aprire una sede all’estero hanno rallentato finora il progetto, oggi Brexit con la necessità di rinegoziare i trattai commerciali complica ancora di più le cose. A caldo direi che vorrei andare, ma penso che Londra possa ancora darmi molto, anche se meno rispetto a prima”.
Londra, il cui sindaco musulmano neoeletto prende le distanze dal Leave, continuerà a essere il sogno di molti italiani, la settima città del Belpaese, come dicono i nostri expat.

ITALIANI PER IL REMAIN

“Ero per il Remain come tanti miei amici inglesi – afferma Enzo Canale, 33enne ingegnere gestionale laureato alla Federico II di Napoli e da due anni nella City dove si occupa di supply chain management – Penso che abbia inciso sul risultato anche il voto di tanti immigrati delle ex colonie, che si sentono più in diritto di noi europei sul mercato del lavoro. Penso abbiano voluto erigere questa barriera e fare in modo che l’Uk rivolga attenzione a scambi commerciali verso di loro più che verso l’Ue. Quanto alle conseguenze per noi, credo che ci saranno in termini di libertà di movimento e forse in caso di perdita del lavoro, un po’ come in Usa e in Australia, ma abbiamo il tempo di organizzarci: passeranno almeno 12 mesi. Sarà comunque un Regno Unito con meno opportunità, se gli ingressi saranno legati alla domanda di lavoro. Diciamo che scoraggerà i ragazzi che vengono all’avventura e finiscono inevitabilmente sfruttati e sottopagati. Per i ruoli professionali già competiamo con persone super-preparate, che arrivano da tutto il mondo. E questa selezione la fa il mercato. Per il business è più complicato perché ci saranno dazi doganali, procedure mai avute prima e costi che si ripercuoteranno sui consumi”.

PREZZI IMMOBILIARI IN CALO?

Tra gli effetti virtuosi, invece, potrebbe esserci un crollo dei prezzi delle case. “Che hanno raggiunto vette elevatissime – dice Eugenio Zecca, quarantenne a Londra dal 2000, un lavoro come manager nella multinazionale delle scommesse Unibet – quindi direi che è un bene. Per il resto sono tranquillo, credo che la paura sia generata dall’incertezza sul prossimo futuro. Ma nella vita quotidiana cambierà poco, anche se immagino file di miei connazionali e di altri europei a chiedere la cittadinanza per non rischiare di perdere i benefici destinati finora anche ai cittadini comunitari, in particolare in termini di welfare e pensione. Io sono tranquillo, questa è casa mia, non intendo tornare indietro e se mai mi accorgessi che le cose stanno prendendo una brutta piega chiederei la cittadinanza, finora non l’ho fatto perché non lo ritenevo utile”.

RABBIA PER IL SOGNO INFRANTO DI UNA UNIONE DI PERSONE

Non è stato necessario, finora, prendere la cittadinanza inglese neppure per un altro veterano, Alberto Santangelo, che gestisce la pubblicità digital del gruppo Viacom, meglio conosciuto per MTV, Nickelodeon, Comedy Central, Paramount Pictures. A Londra questo 42enne siciliano vive da dieci anni. “La conseguenza maggiore di questo voto? L’incertezza – dice – non tanto per me come persona ma più che altro per l’economia e la presenza di aziende internazionali a Londra. Per almeno due anni nulla cambierà per gli italiani ma l’economia potrebbe invece cambiare molto prima. Per il resto, essere stati nel mirino di una campagna d’odio non è stato molto bello, per la prima volta mi sono sentito un immigrato “accusato” di pagare le tasse, contribuire all’economia britannica, essermi infilato in un gap di competenze. Sono arrabbiato per i giovanissimi che non potranno beneficiare del movimento di persone, dei progetti di scambio universitari, come ho fatto io che sono stato un Erasmus a Manchester. Per me l’Europa non è solo il mercato comune ma è un progetto di unione di culture e persone”. Un progetto che proprio in Uk aveva preso forma: “Londra è fondata sull’immigrazione e su questi valori multiculturali che grazie all’Ue sono andati oltre a quelli post-coloniali del Commonwealth – continua Alberto – c’è un sindaco musulmano. In ufficio da noi sono davvero rare le famiglie di soli britannici. Cosa è successo? Che la campagna e le zone depresse dell’Inghilterra e Galles hanno fatto uno sfregio a Londra e all’élite: la protesta era contro il governo non contro l’Ue. Dobbiamo immaginare zone degradate dove vivono persone che, invece di riqualificarsi per contrastare la concorrenza che deriva dalla globalizzazione, se ne stanno al pub e campano con il welfare state, che copre tutte le spese per chi perde il lavoro, per le ragazze madri. E queste persone vivono di rendita sentendosi vittime della globalizzazione. In più questa categoria non sopporta che anche i cittadini europei abbiano accesso a questi benefit”.

CAMPAGNA DI ODIO

Anche a causa di una campagna di odio che i media inglesi hanno incentivato. “Il tema dell’immigrazione è stato usato in maniera estesa e sfortunatamente ha convinto molte persone anche perché la campagna per il remain è stata patetica per non dire altro – sostiene Monica Marques, portoghese di Londra dal 2003, 39 anni e una carriera nell’investment bank e nell’industria degli hedge fund – è iniziato due mesi fa: un crescendo della retorica aggressiva e del malcontento della gente contro la possibilità di dover accogliere rifugiati e contro le interferenze nella politica nazionale della Ue come organo non democratico e non eletto. Le bugie su questo ruolo dell’Ue, sul fatto che il Regno Unito non potessero controllare i flussi migratori, i tagli dell’austerity su tutto, dalle scuole alla sanità, tutto per colpa della Ue e degli immigrati… ogni giorno e ogni giorno, insomma il Leave non è stato poi tanto una sorpresa, il clima un po’ si respirava”. Effetti nell’immediato “nessuno in particolare – conclude Marques – sul piano personale direi che l’unica cosa a essere stata penalizzata finora sono i miei risparmi, che sono sono in sterline. Ma quello che mi preoccupa sul serio e agita i miei incubi è l’ondata xenofoba e razzista che avanza. E anche se sono consapevole che l’Ue avesse bisogno di essere aggiustata, ora il focus potrebbe spostarsi sull’instabilità causata dalla Brexit. Quanto a me, non mi preoccupo: io, come il 90% degli expat miei coetanei siamo mobili, possiamo vivere e lavorare ovunque nel mondo. Ho sempre pensato di poter andar via da Londra”. E, forse, per Monica e per molti altri, stavolta il pensiero diventerà azione. La Gran Bretagna farebbe bene a tremare.

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