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Si è chiusa ieri a Milano la convention programmatica di Stefano Parisi. Come si sa, è probabilmente l’ultima possibilità che il centrodestra cosiddetto tradizionale ha avuto per rilanciare una propria iniziativa politica, ma è anche il primo appuntamento ufficiale con cui Silvio Berlusconi ha tentato di sciogliere i nodi di una matassa che si è tremendamente ingarbugliata dentro e fuori Forza Italia.

Il protagonista è certamente di indiscutibile qualità: candidato sindaco di Milano, Parisi ha perso con onore contro l’ottimo Giuseppe Sala, soprattutto lasciando intorno alla sua persona un’aura unanimemente positiva, avendo, oltretutto, unito attorno a sé, nella competizione per guidare la capitale morale ed economica del Paese, un centrodestra altrove ovunque diviso.

Parisi è cosa seria, dunque, in una fase storica in cui l’area cosiddetta moderata, termine bruttissimo ma di uso corrente, per altro sempre unica opposizione ufficiale al Pd, sta attraversando il momento più difficile della propria storia.

In questa occasione, l’insostituibile Berlusconi resta dietro le quinte, non c’è più Umberto Bossi a guidare la Lega e, fatto per nulla trascurabile, non si vedono spiragli di rinnovamento politico dal basso.

La sfida di Parisi è esattamente questa, dunque: colmare il vuoto dell’opposizione di governo, provare a rivitalizzare, partendo dalla società civile, il centro del centrodestra e riacchiappare l’energia, come recita il suo slogan, di un elettorato ormai perduto, sopito, demotivato, finito nell’astensione e tentato al massimo dal populismo.

Già qui si annidano, in fin dei conti, i primi dubbi e i sostanziali timori. Potrà un uomo solo, dotato seriamente di sicura competenza ed esperienza, invertire la tendenza inesorabile di FI a scomparire?

Riuscirà Parisi, senza la collaborazione, voluta o imposta, della nomenclatura del partito di Berlusconi, a rimettere in piedi in poco tempo la malandata coalizione e a ricostruire dai ruderi una materiale alternativa a Matteo Renzi? Vedremo. Due problemi, di sicuro, si palesano all’orizzonte.

Il primo riguarda la base programmatica del progetto Parisi. Il richiamo fondamentale ad un modello liberale, molto simile al programma originario di Forza Italia del 1994, oggi potrebbe apparire una vuota formula, molto meno potente di allora e spuntata come una bella arma in disuso. Il liberalismo ha prodotto nel nostro Paese unicamente privatizzazioni molto discusse, parziali e al ribasso, e oggi appare un buon ideale, un tantino astratto, che potrebbe non trovare più alcun appeal nell’immaginario degli italiani. Si liberalizza, dico trivialmente, quando l’economia tira; e si riduce lo spazio della politica con favore popolare quando si dispone di una struttura economica e sociale altamente produttiva, con un potenziale nazionale in espansione. In Italia oggi c’è demografia zero, esistono solo imprese piccole e medie malconce o spappolate dalla crisi e dal fisco: un mix, insomma, che non pone le condizioni di base classiche che rendano golosa una rivoluzione liberale, poco corroborata e mai ben digerita, oltretutto, dal prudente popolo italiano.

In aggiunta c’è poi l’incognita contingente espressa dal gruppo dirigente che Parisi vorrebbe coagulare, presente in modo solenne, non a caso, alla convention milanese: con tutto il rispetto per le persone, non credo proprio che il parterre dei presenti sia appetibile elettoralmente e stimolante per competere contro il giovanilismo eccitante, illusorio ma reale, del M5S e contro un’astensione cronica, depressa e passiva.

Il secondo problema riguarda, invece, la concreta costruzione politica delle alleanze che Parisi deve creare. Il vento del mondo, infatti, non tira verso un progetto liberista, ma verso l’emergere delle forze cosiddette ultra conservatrici: Donald Trump negli Stati Uniti, Marine Le Pen in Francia, l’AFD in Germania, Vladimir Putin in Russia descrivono uno scenario internazionale, piaccia o no, che rende Matteo Salvini inevitabilmente un fenomeno serio e un alleato d’oro, che di liberale non ha neanche l’ombra. Un’eventuale operazione neo centrista, d’altronde, posto che abbia ancora un senso, dovrebbe dimostrare di avere da parte sua un portentoso motore politico, con il rischio scottante, numeri alla mano, di poter finire, con o senza Italicum e con o senza riforme costituzionali, a non essere competitivo neanche con se stesso.

Parisi deve dire, insomma, una parola chiaramente costruttiva sulla Lega e su Fratelli d’Italia, altrimenti tutto diventa oscuro e marginale. Tanto più che la sconfitta di Angela Merkel alle amministrative tedesche del mese scorso conferma, senza dubbio, che seguirne la linea equilibrista lo porterà al massimo ad accodarsi con Renzi, facendo finire la nuova speranza in gestazione nel marasma del riciclo e condannando, alle prossime elezioni politiche, l’ennesimo tentativo di riavviare il centrodestra nel nulla, com’è avvenuto, in fin dei conti, per il sogno abortito di Corrado Passera.

Se Parisi, viceversa, vuol vincere, allora deve convincere con intensa caparbietà che ha il futuro in tasca, ed è in condizione di unire finalmente, attorno al suo carisma, tutto il centrodestra, nessuno escluso, in modo originale e deciso. Per riuscire infatti veramente nell’impresa, in nessun caso può dare concessioni al referendum e aprire spiragli ammiccanti al PD, dovendo invece portare nella squadra, con determinata risolutezza, senza umiliazioni e senza paure di eventuali contaminazioni, le destre populiste.

Chi vivrà vedrà, ovviamente: speriamo perlomeno che gli elettori di centrodestra non restino come al solito a bocca asciutta, condannati ad essere un triste gruppo di orfani che tutti insieme si consolano divenendo degli spettatori rammaricati e delusi che, all’occasione, si alleano con un’astensione liberale, per l’ennesima volta inchiodata ai blocchi di partenza.

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