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I terroristi celebrano, si sa, gli avvenimenti che gli altri esseri umani deprecano. Negli ultimi giorni e ore, essi hanno potuto celebrare uno dei loro sanguinari trionfi nel cuore dell’Europa che soffre, si divide e teme. Contemporaneamente essi hanno dovuto subire la sconfitta simbolicamente più grossa del quinquennio più sanguinoso della loro offensiva contro il resto del mondo. Bruxelles è stata insanguinata proprio nel momento in cui veniva liberata Palmira e molto probabilmente la lunga guerra in Siria è giunta a una svolta da salutare come una vittoria per l’umanità intera.

Palmira era diventata un simbolo e lo era rimasta per lunghi mesi, sia pure cambiando più volte di significato. Quando è stata conquistata dai terroristi dell’Isis, la loro offensiva in Siria e anche in Irak era al culmine e le sue vittorie, sempre coronate da massacri di civili, parevano irreversibili. Da Ramada a Mossul a Raqqa, tutte le strade parevano condurre a Damasco. Quella lunga guerra aveva trovato un simbolo, un significato mondiale, ma la sua fama era costruita sulla rassegnazione all’irreversibilità dei destini di quella guerra. Il prossimo passo doveva essere imminente: la caduta di Damasco, la cacciata del dittatore Assad, un caos paragonabile a quello portato ai suoi tempi dai talebani in Afghanistan dopo il ritiro delle armate sovietiche. Nessuno sembrava potere scongiurare tali sviluppi, anche perché, soprattutto in Occidente, ben pochi sembravano realmente volerlo.

La decapitazione delle statue riassumeva, simbolo ben concreto, quella degli uomini, delle donne, dei bambini. Si sbriciolavano i templi e le immagini delle divinità pagane, prendevano il loro posto come simboli dei truci tagliagole quasi fossero nuove divinità. Al punto o quasi da far risorgere memoria e simpatie per il Dio Baal. E il resto del mondo non sapeva che piangere e compiangere le vittime di carne e quelle di marmo. C’erano troppi belligeranti, troppi fronti, le alleanze erano articolate in modo contraddittorio e surreale: l’Occidente mandava i suoi aerei a colpire i jihadisti ma contemporaneamente anche i loro nemici, secondo una logica senza molti precedenti nella storia, immemore dell’antico adagio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, si riteneva possibile una “neutralità” proclamata tra le mille distinzioni. Assad era dato per perdente da anni. Non erano leciti dubbi nutriti dalle cronache e dalla storia. Si compiangevano le vittime di duemila anni fa e si dava per scontata l’impunità degli assassini di oggi. Ci si aggrappava alla profezia più smentita secondo cui gli assassini dell’Isis sarebbero stati dei continuatori dei martiri della “primavera araba”, mentre essa era più morta di quelle statue di Palmira.

A sbloccare la situazione è venuto un nuovo belligerante che nessuno aveva previsto: la Russia. La svolta in Siria è firmata Vladimir Putin. Perseguendo unicamente gli interessi di Mosca (la Siria era ed è tuttora l’unico Paese del Mediterraneo ad aprire i suoi porti ai russi) e senza attendere ufficialmente gli “alleati”. In prima persona, Mosca ha mandato prevalentemente gli aerei, caccia e bombardieri, con molta continuità che non le missioni americane e alleate a vantaggio dei ribelli “buoni” che combattevano lo stesso nemico, cioè Assad.

Quanto alle operazioni di terra, esse sono partite in dosi assai leggere e sparse, ma poi si sono concentrate sempre di più sulla zona di cui fa parte anche Palmira e dove si trovano gli incroci delle autostrade che attraversano tutta la Siria e conducono verso Ovest alle due zone più popolate, Damasco e Homs e si estendono verso Est, sulla stessa rotta che consentiva un tempo il passaggio di una branca della Strada della Seta e collegava anche Roma alla frontiera orientale più combattuta e minacciata ai tempi dell’Impero perché era la frontiera con la Persia, cioè con l’Iran di oggi.

Nel suo bollettino della vittoria dei giorni scorsi, Assad ha ricordato con orgoglio “il successo significativo e la prova evidente della efficacia della strategia seguita dall’esercito siriano e dai suoi alleati”, sottolineando anche il contrasto con quella che Assad ha definito !mancanza di serietà” da parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Che però sono andati a poco a poco modificando le dimensioni del loro impegno. Una manovra dettata da una più realistica valutazione rispetto ai primi anni della guerra civile siriana in cui Washington parve lasciarsi guidare dagli alleati interventisti, prima fra tutti la Francia, quasi in un replay della malconsigliata crociata contro Gheddafi in Libia. Portata avanti anche in musica: si tornava a sentire quello che era stato l’inno nazionale francese negli anni di Napoleone III, in sostituzione della Marsigliese, dal testo troppo “repubblicano”. Anche perché all’Eliseo non c’è più, per il momento, Sarkozy.

Le alleanze non si cancellano con le vittorie. Potrebbe perfino salire in questo momento il ruolo dell’Italia, proprio a proposito di Palmira. A Carrara stanno estraendo a ritmo accelerato il marmo destinato a ricostruire l’Arco di Trionfo che i romani eressero nel II secolo dopo Cristo per celebrare una grande vittoria contro i persiani, fra i primi oggetti rasi al suolo dal Califfato.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

Perché Putin gongola in Siria

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